Saturday, 23 August 2008

Il potere scaltro

Doveva era stanchissimo, eravamo tutti piuttosto stanchi dopo una giornata-maratona di relazioni e dibattitti. Lui aveva pure il fuso orario sul collo. Certo è che quando un paio di mesi fa ho avuto la possibilità di incontrare Joe Biden, la prima e forse principale impressione che mi ha fatto è stata quella di un uomo che conosce "the ways of Washington," come si dice da quelle parti.

Il suo discorso in quell'occasione fu abbastanza carico retoricamente, il Senatore si smarc
ò piuttosto abilmente da domande a trabocchetto su McCain e Obama, e il messaggio finale che mi lasciò alla fine potrebbe non essere rivoluzionario, ma è ampiamente condivisibile--in puro stile ways-of-Washington. Non esiste "hard power" (L'America, ndr) o "soft power" (L'Europa ndr), disse il Senatore, esiste solo lo "smart power", il "potere scaltro".

E scaltri, a mio parere,
i democratici si sono dimostrati. La guerra in Iraq sembra essere stata sorpassata nei sentimenti degli elettori americani dalla crisi economica. Gli sviluppi della situazione in Georgia, però, sono un monito abbastanza esplicito che quello che Bob Kagan chiama il "Ritorno della Storia" è una realtà che potrebbe ricominciare a pesare in campagna elettorale. Serviva un uomo di esperienza in politica estera per accompagnare Obama alla Casa Bianca, e Biden lo è.

Biden presiede la Commissione affari esteri del Senato e ha un discreto pedigree bipartizan. La sua lunga permanenza in politica minerà un po' il messaggio di cambiamento con cui Obama ha martellato gli americani nell'ultimo anno. E McCain probabilmente se ne servirà per confermare che il cambiamento proposto da Obama è tutto fumo e che il giovanotto in fondo non è preparato. Nelle settimane più recenti, i sondaggi (per quello che valgono) suggeriscono che la tattica dell'attacco frontale funziona. D'altro canto, per Obama, era quasi una scelta obbligata, e adesso i democratici dovranno lavorare per cercare di far quadrare il cerchio intorno a questo ticket ben assortito ma eterogeneo.

Tifo spudoratamente che riescano a rimanere scaltri fino alla fine.

Wednesday, 13 August 2008

Le morali di una guerra

La Russia sostiene che ha cominciato la Georgia. La Georgia dice che hanno cominciato i russi. Francamente, non importa. I conflitti cosiddetti 'congelati' (quasi un ossimoro) in Ossetia del Sud, e quello parallelo in Abkazia, hanno bollito per oltre un decennio e segnali di un'esplosione vera e propria sono stati frequenti negli ultimi mesi. Adesso la guerra è esplosa e quello che veramente conta è cercare di intravedere le conseguenze.

La prima direi
è che la Russia, per la prima volta dall'elezione di Putin nel 2000, ha dimostrato che alle parole (e qualche interruzione energetica) seguono i fatti. La Russia difficilmente sarà isolata dopo la guerra. L'occidente non se lo può permettere e il mondo non è più unipolare.

La seconda
è che Saakashvili ha tirato troppo la corda. L'avevo scritto qualche mese fa: il presidente georgiano è giovane ed ambizioso, due attributi pericolosi in un paese come la Georgia. Comunque siano andate veramente le cose, Saakashvili ha alzato i toni, provocato, e portato la Georgia sull'orlo di un'invasione russa fino a Tbilisi. Ora rischia il posto, ma anche se non lo rischiasse, ha decisamente perso l'aura di eroe romantico che si era creato e che gli americani hanno sostenuto e promosso.

La terza conseguenza riguarda proprio gli Stati Uniti. Con Bush a fine mandato, ai minimi storici di popolarit
à e con l'esercito 'overstretched' in Iraq, era inverosimile immaginare un sostegno militare americano. Che però Washington, in questa occasione, si sia praticamente limitato a facilitare il rimpatrio dei soldati georgiani di stanza in Iraq e a sostenere la missione europea guidata da Sarkozy la dice lunga sulla posizione degli Stati Uniti e sulle conseguenze per Tbilisi. La Georgia è un paese che si è inventato un americanismo quasi kitsch: la prima cosa che il passeggero incontra all'uscita dell'aeroporto di Tbilisi è un enorme poster con George W. che digrigna la mascella e saluta con la manina. I georgiani erano arrivati a sperare che potessero presto entrare nella NATO, grazie al sostegno americano. Quel sostegno non è servito in occasione dell'ultimo vertice dell'Alleanza, ed è molto, molto improbabile che arrivi ora.

Monday, 28 July 2008

Il peccato turco

Quello che è successo alla Turchia negli ultimi due anni farebbe invidia all'Italia, se non fosse che qui fanno sul serio.

L'attentato terroristico ieri
è un'altra spallata al futuro europeo di Ankara. La prossima potrebbe venire a giorni dalla Corte Costituzionale che si pronuncerà sulla richiesta di sciogliere il partito di maggioranza AKP e di proibire a decine di alti funzionari, incluso il PM Erdogan e il Presidente di fare politica. Il tutto per le loro tendenze islamiste.

Questi i fatti, e questo anche in apparenza il punto fondamentale. L'AKP sta islamizzando la Turchia e i falchi laici (soprattutto lo stato maggiore dell'esercito) devo raddrizzare nuovamente il paese in direzione 'kemalista.'

La dialettica laicismo/religione non dice tutto, per
ò. Innanzitutto non spiega completamente la recente serie di impressionanti errori tattici di Erdogan: insistere sulla nomina di Gül alla presidenza, una forzatura forse evitabile; cercare di riformare la costituzione (del 1980 e scritta dai militari, bisogna aggiungere) senza consultare l'opposizione; infine la storia del velo nelle università, la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Ci sono stati segnali piuttosto evidenti, soprattutto nell'hinterland dell'Anatolia di una graduale involuzione tradizionalista e religiosa, a partire dal consumo di alcohol. Ma dubito profondamente che la decisione strategica di Erdogan fosse quella di ritornare al califfato. E' stato pi
ù europeista di tutti i suoi predecessori laici, e ha sempre detto di vedere l'AKP come una specie di partito democristiano alla tedesca. Però di scelte discutibili e a mio parere erronee ne ha fatte. Poteva contare su una maggioranza schiacciante dal 2007 e l'ha usata in modo sconsiderato.

L'altro elemento che scardina il dualismo laicismo/religione
è proprio il ruolo dell'Ue. Mentre Erdogan si guadagnava le stellette di campione a Bruxelles, i laici sono fondamentalmente diventati il gruppo più anti-europeo della Turchia. Perchè? La risposta più ovvia è che molte delle riforme dettate dall'Ue vanno proprio in direzione di quella diversità sociale e culturale che secondo i Kemalisti rappresenta il cavallo di Troia per l'islamizzazione. L'altra, più scomoda verità è però che queste riforme, specialmente riguardo al controllo civile delle autorità militari, scardinano i pilastri del potere delle forze armate turche.

Dietro a questo scontro filosofico e culturale, in altre parole, si annidano motivi ben pi
ù terreni. Il fatto è che la situazione si sta deteriorando ogni giorno che passa. Peccato davvero.

Tuesday, 22 July 2008

Il macellaio

Nell'ultimo decennio pare dunque che si sia nascosto sotto falso nome, una barba 'Saddam-esca' e facendo un lavoro simile a quello che faceva prima di entrare in 'politica.' E proprio a Belgrado; quella Belgrado che lo aveva tanto maltrattato quando non era nessuno, poi pompato quando trucidava vittime inermi e ora protetto per un decennio.

Le modalita' e le circostanze dell'arresto di Radovan Karadzic, uno degli ultimi macellai della guerra nell'ex-Yugoslavia in liberta', sono fondamentali per misurarne le conseguenze. L'arresto e' importante, importantissimo: per la Serbia che vuole entrare in Europa, per la credibilita' della giustizia internazionale, per le famiglie delle vittime di stragi come quella di Srebrenica.

Decisivo, pero', ancora no: non per chisura delle ferite della guerra, che in Bosnia rimangono ancora aperte. E soprattutto non ancora per la transizione della Serbia. Ad un Karadzic che lavorava nascosto in una clinica di periferia sotto falso nome fa da contraltare un Mladic ancora in liberta', che probabilmente puo' godere di una protezione molto meglio organizzata (era un generale), e che ha responsabilita' materiali molto piu' pesanti.

Come dicono oltre-oceano: "the jury is still out." Io, nel frattempo, ne discuto stasera alla tv danese.

Thursday, 10 July 2008

La (ri)Fondazione

Fra toni sopra le righe (eufemismo) e leggi discutibili (eufemismo), un'iniziativa lodevole.

Tuesday, 8 July 2008

La mia

Alla fine anch'io ho dovuto dire la mia sull'Unione del Mediterraneo.

[Comment] How the Union for the Mediterranean will work

FABRIZIO TASSINARI
07.07.2008 @ 06:31 CET

EUOBSERVER / COMMENT - Ever since Nicolas Sarkozy tried to bulldoze his plans for a Mediterranean Union into the European debate, the new scheme seems to have made the headlines mostly for the amount of bashing it has received. Yet, if the initiative has a shot at working, it is for reasons that are both the same and completely the opposite of those initially dreamed up by the French.

Sarkozy had envisioned something that would do to the Mediterranean what Monnet and Schuman did to Europe in the 1950s: a bold integration initiative of which "our children will be proud." July 13th, when the plan is to be officially launched, is supposed to be "the day when all of us will have to meet history." That this inspired rhetoric has fallen on deaf ears is an understatement. European capitals, most notably Berlin, politely turned down the original idea on at least three counts: it was feared it would further weaken the common EU foreign policy; it was regarded as a surrogate for Turkey's EU membership bid; and it was seen as a potential competitor to the European Union itself.


After some wrangling among key EU member states, the baton has since passed to the European Commission, which unveiled its proposal in May. At face value, the Commission has been forced into the EU's characteristic institutional overkill. The new initiative will be embedded in the existing framework, the so-called Barcelona process. It will complement and upgrade its ongoing work. Its new official name: 'Barcelona Process: Union for the Mediterranean.'


A diverse bunch of unruly neighbours
Even diluted as it now is, this new enterprise is still an inevitable outcome of the most serious flaws of the EU's Mediterranean policy. For over a decade, the EU has chased a quixotic, comprehensive rapprochement with a diverse bunch of unruly neighbours spanning from Morocco to Jordan. The Barcelona process, after all, is modelled on the three-basket architecture of the 1975 Conference for Security and Cooperation in Europe.


Yet, the Middle East and North Africa have hardly moved closer the political standards that the EU has timidly sought to promote. Authoritarian regimes in the South appear as resilient as ever. The Middle East stagnates in its perilous stalemate. Most worryingly, the vision of a single Mediterranean space umbilically bound to the EU by historical ties and economic interdependence has been trumped by the prevalent European perception of its Southern backyard as the prime source of illegal migration, fundamentalism and terror.


This sorry record can explain why recent initiatives in the region go in the direction of a diversification and devolution of EU policies. The European Neighbourhood Policy has added a bilateral dimension to the cumbersome deals that the EU had sealed with its Southern counterparts under the Barcelona regime. Europe has called (without much success so far) for a more substantial South-South cooperation among North African and Middle Eastern countries. Faced with the longstanding paralysis of the political dialogue, the EU has placed more emphasis on the cultural and social realm of its policies.


Gradual devolution
Also, in light of the present post-Irish referendum gloom, the Union for the Mediterranean represents another step in the direction of this gradual devolution. The new initiative will focus on specific projects in areas such as energy, environment, and transports. Its secretariat will effectively be a technical office for project coordination. It will be chaired by two rotating consul-like figures, one from Europe and one from a North African country. But it is more logical to imagine these personalities speaking for their respective constituencies than on behalf of the Mediterranean as a whole.


Put another way, rather than heralding a new era of Mediterranean unity, this new scheme will at best provide substance to some sector-specific cooperation and counter Brussels' centralizing tendencies. Whether and how this move will change the way Europeans perceive threats emanating from the South remains to be seen. But the involuntary moral of this saga may well be that the sooner the EU stops looking at its Southern periphery as the chimerical 'Mediterranean', the better it will be equipped to deal with its troubles.

Monday, 30 June 2008

I 20 intellettuali "akbar"

Oggi la rivista Foreign Policy pubblica la lista dei 20 intellettuali piu' influenti al mondo. 10 su 20 sono musulmani.

Sunday, 22 June 2008

Euro-Clausewitz

Il calcio lo seguo con la sagacia e competenza degli altri 55 milioni di CT che si aggirano disoccupati in Italia. Quindi se devo dire anche io la mia, direi che la cifra della partita di stasera sarà capire chi delle due contentendi ha la difesa più moscia

Detto questo, mi ha sempre affascinato il paragone, un po’ forzato e un po’ no, fra la palla che rotola e la politica internazionale (vedi, per esempio, How Soccer Explains the World: An Unlikely Theory of Globalization di Franklin Foer). La cosa mi è tornata in mente ieri sera mentre vedevo come la Russia strapazzava l’Olanda.

Quattro anni fa la Russia era stata la prima squadra ad uscire, la Francia e l’Inghilterra sembravano dover spaccare il mondo, e alla fine vinse la piccola Grecia. Il paragone con la politica cosa mi incuriosì a tal punto che vidi la necessità di scriverne sull’ International Herald Tribune. Quest’anno sono in altre faccende affaccendato e oltretutto non posso riscrivere lo stesso articolo.

Certo è che in quattro anni la Russia di passi avanti ne ha fatti.

Thursday, 19 June 2008

Il drizzone

"Vado in Europa dopo due anni e la trovo diversa rispetto a due anni fa quando c'erano persone come Tony Blair, Aznar, Chirac e io stesso. Con il cambio di nomi l'Europa ha perso personalità, protagonismo e ha fatto dei passi indietro" (Silvio Berlusconi, 19 giugno 2008).

Per la terza e ultima puntata della mia settimana americana, a breve un video qui.

Tuesday, 10 June 2008

Settimana americana 2

Come anticipato qui sotto, la prima parte della settimana è stata effettivamente più italo-americana che americana: il workshop del Consiglio Italia-Stati Uniti a Venezia.

Ottimo il discorso di Sergio Marchionne in apertura che, nel suo pullover di ordinanza, ha vivisezionato il panorama economico internazionale citando un po’ di tutto: dall'IMF, ai Dire Straits, a Tostoy.

Interessanti, nella mia ignoranza, le sessioni economiche all'inizio e quella su internet alle fine, ma ancora di più, per ovvi motivi, la seconda sulla ricostruzione ‘post-conflict’ e la terza sulla Russia.

Nel dibattito sulla ricostruzione, animato dalla sempreverde Lilli Gruber, Paddy Ashdown in particolare ha sintetizzato brillantemente le lezioni positive della sua esperienza come Alto Commissario in Bosnia.

Ashdown non si è soffermato molto sulle lezioni negative, neanche quando queste sono effettivamente emerse dal dibattito in sala. Mi riferisco in particolare alla questione della ‘ownership’, ovvero come ed in che misura si cedono le redini del governo ai locali quando un protettorato internazionale comincia ad esaurire il suo compito. L’inghippo della ownership ha un po’ tarlato la comunque ricca eredità che Ashdown ha lasciato a Sarajevo, ed ha decisamente tarlato l’operato del suo successore Schwartz-Schilling.

La terza sessione sulla Russia è stata moderata da un Sergio Romano molto provocatorio (ha piu o meno detto che nell'Ucraina meridionale non ci sono ucraini) e con un ficcante Yegor Gaidar, ex primo ministro russo. Io ci ho messo del mio, che, confesso, morivo dalla voglia di citare, in Italia, una frase pronunciata da Putin un paio di anni fa: “La parola Mafia non è stata inventata in Russia.”

Seguirà la parte americana vera e propria, in una Washington a quasi 40 gradi, climaticamente e politicamente. Nel frattempo l’aneddoto è che non sono partito col primo volo assegnatomi e ‘pagatomi’ da fondi federali americani perchè—cito la compagnia aerea—la carta di credito (dei fondi federali) era scoperta. Bah.

Sunday, 25 May 2008

Il metodo GTSS

Anti-politica; protesta civile; metodo GTS per Grillo/Travaglio/Saviano (copyright di Severgnini, al quale forse aggiungerei un'altra S del suo collega Gian Antonio Stella, autore de La Casta): lo si chiami come si vuole, a me il fenomeno non convince.

Sia ben chiaro: non è una questione di patriottismo nè di qualunquismo. Non è un attacco al giornalismo d'inchiesta, nè un mini-editto bulgaro contro la satira. Più semplicemente è una sensazione che mi è istintivamente venuta dopo la visione, nella mia ultima giornata italiana settimana scorsa, dell’atteso film Gomorra.

Anche in questo caso, i distinguo non sono mai troppi. Il film è a mio parere molto ben fatto. In particolare--da profano del settore quale sono--ho trovato molto significativi quei contrasti fra i frequenti primissimi piani dei vari camorristi e quei secondi piani sfocati del degrado sociale di Scampia. Ed il successo di Gomorra, come quello de La Casta, del VDay, o anche delle requisitorie di Marco Travaglio, devono molto non solo ai temi trattati, ma al talento dei rispettivi autori.

Però il corollario, a mio parere non voluto dagli autori, di questi enormi successi è che rischiano di rendere l'Italia più indifendibile di quello che è. Non parlo della casta o della criminalita' organizzata, che sanno difendersi e attaccare benissimo da sole. Parlo del cittadino comune, quello onesto, che fa il suo dovere nonostante l'evidenza e che talvolta si convince di combatterla, l'evidenza, costruttivamente.

Personalmente, la prima cosa che mi è venuta in mente domenica all’uscita dal cinema è stata che, in fondo, il successo di Gomorra a Cannes e la drammatica parabola di Don Peppino Diana a Casal di Principe (al quale lo stesso Saviano ha reso omaggio) appartengono allo stesso mondo.

Tuesday, 20 May 2008

L'empirismo

Giorni fa avevo messo su un pentalogo minimo di politica estera, a mio parere ineludibile per entrambe gli schieramenti politici.


Col senno del poi, ci aggiungerei un'altra questione meno tradizionale, ma destinata a diventare sempre più 'estera,' ovvero disastri naturali e crisi non convenzionali (ottimo rapporto sulla questione dei miei colleghi di Washington, qui).


Ad ogni modo, la mia sperimentazione comincia ufficiosamente oggi.

Wednesday, 14 May 2008

Il mal di pancia

Ben scritto ha Denis MacShane in un corsivo pubblicato settimana scorsa su Newsweek.


Gli anni '90 erano quelli nei quali i Clinton, gli Schröder, i Jospin, i Prodi, i Blair, insomma il centro-sinistra da "terza via" imperversava. MacShane (che, per inciso, era ministro nel governo Blair) fondamentalmente sostiene che queste personalità si siano limitate a gestire l'enorme capitale politico che gli era stato affidato. In alcuni casi potevano contare su un carisma fuori dal comune e anche su qualche fuoco d'artificio mediatico, ma non hanno prodotto una vera visione del futuro: quello loro, della sinistra occidentale e quello--well--nostro.


Questo spiega la virata a destra dell'Europa di questo decennio. Nulla ha dello spessore del conservatismo europeo della generazione precedente (Adenauer, Churchill o lo stesso De Gaulle). Ma vince perchè, da Sarkozy al nuovo sindaco di Londra, sa parlare alla pancia.


Fin qui poche novità. Se c'è una figura che da sempre incarna la politica che governa, fa opposizione e vince 'con la pancia' quello è ovviamente Berlusconi. Ora però: fare un'opposizione costruttiva e perfino una legislatura costituente è una cosa. I ghirigori sull'inedito tono sobrio, misurato ed istituzionale del Presidente del Consiglio mi sembrano francamente non richiesti.

Saturday, 3 May 2008

Luxury problem

Dopo la pesante sconfitta alle amministrave ed in particolare a Londra, il fiato sul collo di Brown si farà inevitabilmente pesante. L'uomo è competente, serio e tutto sommato l'economia continua a camminare. Ma più Brown è lodato all'estero, più sembrano massacrarlo a casa sua.

Il Labour ha il lusso dell'abbondanza. Penso a David Miliband su tutti. Attualmente ministro degli esteri, Miliband è giovane e carismatico. Lo si dipinge anche come molto intelligente (soprannome: "The Brains"), e per quanto mi riguarda, posso dire che la politica estera la naviga brillantemente (qui un suo recente intervento, con un breve scambio con me su Balcani, Turchia e Russia).

Da un punto di vista puramente strategico, l'unico che non si gioverebbe dei talenti di Miliband e altri suoi coetanei in posizioni di responsabilità sarebbe, ovviamente, solo Brown. L'ombra dei conservatori (anche loro con una leadership giovane ed energetica) si sta allungando sulla sua amministrazione, e fra un paio d'anni Brown potrebbe fare tranquillamente la fine di John Major dopo il decennio della Thatcher.

Se però faccio l'errore di guardare alla cosa a distanza, ed con riferimento ad un Paese in particolare, non riesco a togliermi dalla testa la sensazione che gli inglesi hanno davvero solo un "luxury problem."

Friday, 25 April 2008

Elogio transalpino

Ho sempre pensato che l'approfondimento politico della tradizione televisiva anglosassone--HARDtalk della BBC, per esempio--fosse anni-luce di distanza dai talvolta imbarazzanti sipari che passano per le TV italiane. Domande 'vere', critiche ficcanti e regolari interruzioni del giornalista se il politico di turno comincia a divagare.

Tutto questo, prima di vedere ieri sera la trasmissione con Sarkozy su TV5 Monde. Tavolo triangolare. Seduti da un lato, due conduttori che lo tempestano di domande e lo guardano con lo scetticismo col quale un professore guarda lo studente che non ha fatto i compiti. Dall'altro lato, un altro giornalista o esperto che si alterna a turno ogni 15-20 minuti per domande su temi specifici: economia, immigrazione, società etc. Sul terzo lato, circondato dalle due artiglierie, Monsieur le President Per un'ora e mezza, Sarkozy è stato rosolato a fuoco lento con domande specifiche a ripetizione. Davvero senza tregua.

Sulla sostanza, alcune delle cose che ha detto mi hanno lasciato perplesso. Per esempio, si è detto certo che Italia e Spagna non faranno più 'amnistie' di clandestini come quelle di qualche anno fa (circa 700 mila richieste in entrambe i casi, se non ricordo male), e onestamente con l'aria che tira non ne sono troppo sicuro.

Però bisogna dargli atto che ci sa fare: molto preparato sui numeri, mai a disagio sulle critiche, molto avvocatesco nel modo di arringare il pubblico. E poi l'adrenalina: sembra che l'aggettivo più frequente che sia stato attribuito a Sarkozy in questo anno scarso di presidenza sia 'iperattivo.' Vedere per credere.

Tuesday, 22 April 2008

La flexicurity e la pigrizia

Su questo numero della prestigiosa rivista americana Foreign Affairs c'è un articolo a mio parere interessante di Robert Kuttner intitolato "The Copenhagen Consensus".

Attraverso dati ed interviste a sindacalisti, politici ed industriali danesi, l'autore ripercorre le ragioni storiche e politiche del modello danese ed in particolare della "flexicurity", il risultato piu' evidente di un consenso propriamente scandinavo che coniuga un mercato del lavoro altamente flessibile con generosi ammortizzatori sociali.

In periodi di campagna elettorale, in Europa come in Nord America, capita spesso a politici ed intellettuali di lanciarsi in paralleli fra il modello danese e quelli dei loro stati di appartenenza. È successo anche in Italia durante le elezioni precedenti (qui e qui), meno in questa, triste ultima tornata.

A queste proposte, solitamente, seguono una serie di distinguo: si possono importare aspetti della flexicurity, ma non tutto; gli italiani non pagherebbero mai il 50% di tasse, etc. Ecco Kuttner ha, a mio modo di vedere provocatoriamente, sintetizzato questi e dozzine di altri possibili distinguo con due parole: "path dependence."

"Path dependence" è quel concetto utilizzato dagli economisti dello sviluppo per indicare una sorta di abitudine, ed anche pigrizia, che ci porta a prendere determinate decisioni e ripeterle, anche se magari sappiamo non essere le migliori. Per usare un suo esempio, "path dependence" è il motivo per il quale molti consumatori continuano a comprare i computer targati Microsoft anche se sanno che quelli Apple funzionano meglio.

Secondo Kuttner questo è lo stesso meccanismo che ostacola riforme strutturali in senso "scandinavo" in altri paesi dell'Europa e in Nord America. Teoricamente sia governanti (in buona fede) che contribuenti (onesti) sono consapevoli della bontà dello stato sociale scandivavo. Ma convinti che in Scandinavia questa esperienza sia frutto di circostanze culturali, storiche e sociali uniche e irripetibili, rinunciano ad introdurre anche elementi di quel modello, e fondamentalmente si ostinano a lavorare su quello che hanno.

Onestamente, la devo ancora digerire; ma mi sembra una tesi che meriti di essere ponderata.

Thursday, 17 April 2008

Più prosaicamente...

...uno torna in albergo dopo un'immersione del genere, accende il computer e legge del Presidente del Consiglio in pectore che incontra il suo omologo russo prossimo venturo in Sardegna. Didascalia: "vecchi amici".

Ora: capisco che Putin era di passaggio dalla Libia (buono pure quello); e capisco anche che di questi tempi possa sembrare quasi antipatriottico ricominciare con le schermaglie teatrali della politica nostrana. Però che tre giorni dopo le elezioni, il primo leader internazionale che Berlusconi incontri sia Putin (prossimo primo ministro), davvero non me lo spiego. O meglio, me lo spiego fin troppo, ma mi sembra quanto meno fuori luogo.

Sarajevo

Se non fosse per i minareti, per le preghiere che echeggiano dai megafoni, e per le chiese ortodosse, Sarajevo vecchia potrebbe essere tranquillamente un paese nell'appennino umbro. Purtroppo, com'è noto, dal 92 al 95 quei "se non fosse" sono stati la scusa per riempire di lapidi i tanti cimiteri della città (molti dei quali davvero suggestivi).

Sotto diversi punti di vista, la Bosnia rimane un paese congelato nel tempo: ha 3 presidenti, una specie di vicerè internazionale ed un assetto istituzionale ancora ancorato agli accordi forzati da Clinton a Dayton 12 anni fa. Ma molto sta cambiando: proprio ieri, per esempio il parlamento qui ha, dopo anni di negoziati sfiancanti, definito la riforma del corpo di polizia, anch'esso finora diviso in 3. Questo dovrebbe spianare la strada per la firma un'Accordo di Associazione e Stabilizzazione, anticamera dell'accesso nell'Ue.

Nella Commissione Internazionale per i Balcani presieduta da Giuliano Amato si auspicava che i paesi Balcani possano entrare nell'Ue nel 2014, esattamente un secolo dopo l'omicidio di Sarajevo che provocò il casus belli per la prima guerra mondiale. Forse in 6 anni non ci si fa, ma sono fiducioso che Sarajevo quel secolo terribile se lo sia messo definitavemente alle spalle.

Monday, 14 April 2008

Amaro e dolce

È molto amaro pensare di essere rappresentato potenzialmente fino al 2013 (duemilatredici!) dal centrodestra, e da questo centrodestra. È oggettivamente amaro vedere tabelle con un divario del 9% (novepercento!) fra le due coalizioni maggiori. E tutto sommato è amaro vedere che la sinistra radicale, per quanto scalcagnata per organizzazione, sparisca dall'agone della democrazia parlamentare italiana.

È secondo me dolce vedere che quasi i tre quarti degli elettori italiani abbiano scelto i due partiti maggiori. Creare un bipolarismo by default e con la "porcata", è una potenziale meraviglia che solo l'elettore italiano poteva cacciare dal cilindro. Ma è "anche" il frutto delle scelte di Veltroni, che ha scommesso sugli sbarramenti e spinto il centro-destra a creare il PdL. E sarebbe dolce immaginare che quel 70% riuscisse a convergere su almeno alcune delle scelte economiche ed istituzionali fondamentali che aspettano la prossima legislatura.

Tutto questo scritto a caldo. Perchè da Belgrado, dove mi trovo a discutere di nazioni che si sgretolano, Europa che si allontana, e disoccupazione al 30%, tutto ha un altro sapore.

Thursday, 10 April 2008

La balcanizzazione dell'Italia

Questi ultimi giorni di campagna elettorale si sono imbruttiti per tono e temi. Per certi versi consola sapere che gli italiani all'estero hanno già votato.

Riportai tempo fa una dichiarazione di Angelo Rovati , braccio destro di Prodi, che all'indomani della caduta del governo sostenne che il Centro-sinistra è come l'ex Jugoslavia. Ironia della sorte, lunedì prossimo, mentre i primi risultati di queste inopportune elezioni cominceranno ad invadere siti e tv, io starò parlando agli studenti e docenti dell'Università di Belgrado, per poi spostarmi, 48 ore dopo, a Sarajevo.

Risparmierò all'audience serba citazioni infelici, ma dubito che lunedì riuscirò a togliermi dalla testa quella similitudine. Posso solo sperare che il risultato di queste elezioni non sarà pareggio, frammentazione, stasi: insomma l'ennesima 'balcanizzazione' del panorama politico italiano.

Wednesday, 2 April 2008

O Bucarest, o morte

La prima, e per ora unica, volta che ho ascoltato Viktor Yushchenko e Mikheil Saakashvili parlare è stato un paio di anni fa nel mastodonte di marmo bianco costruito da Ceausescu a Bucarest. I presidenti di Ucraina e Georgia ritornano in quel palazzo oggi per il vertice della NATO. La differenza, questa volta, è che presumo parleranno poco e ascolteranno tanto.

Solitamente i vertici internazionali sono vetrine per decisioni, talvolta storiche, contrattate in anticipo. Dopo mesi di negoziati, però, questa volta i capi di stato dell’Alleanza atlantica si incontreranno senza aver raggiunto un compromesso sulla possibilità di avvicinare la prospettiva di adesione per Kiev e Tbilisi.

Le posizioni contrapposte sono quelle solite, e aggiungo purtroppo. Si sa che gli americani vogliono spingere sull’acceleratore. E si sa anche che la Russia, con Putin in una delle sue ultime uscite ufficiali da Presidente (poi si vedrà), darà battaglia.

Io sono convinto che la prospettiva del cosiddetto Membership Action Plan (MAP), testa di ponte verso l’adesione, debba essere offerto a questi due paesi. E questo non tanto perchè se lo sono meritato—bisogna pur ammettere che negli ultimi 3-4 anni le ‘rivoluzioni colorate’ si siano tristemente sbiadite. Ma per la loro tenacia nell’avvicinarsi all’Occidente (dopo tutto, i sondaggi in Ucraina danno il supporto popolare per la NATO a meno del 20%).

Il MAP non è nè una scorciatoia nè una garanzia, ma è il segnale che l’Occidente continua a riporre fiducia nelle riforme e nella transizione dei paesi ex-Sovietici. Sia Yushchenko che Saakashvili sanno che quel segnale, per ora, non arriverà dall’Ue, e possono solo sperare che l’avanzamento verso la NATO possa giocare lo stesso ruolo che giocò per paesi come la Polonia, che entrarono nell’Alleanza 5 anni prima dell’Ue.

In tutto questo, il “purtroppo” riguarda le posizioni di Francia e Germania, che si oppongono al MAP per questi due paesi. La cosa che personalmente mi delude è la continuità di Merkel e Sarkozy, che dopo tutto sembrano mantenere le supine posizioni filo-russe dei loro predecessori, a dispetto di proclami all’apparenza coraggiosi.

Per una volta, la partita si gioca tutta al vertice. Non sarà la fine del mondo se la NATO risponderà picche questa volta. Ma la dirà lunga sulle nostre capacità di ricompattarci di fronte alla Russia.

Tuesday, 25 March 2008

Il rovescio dell'inciucio

Immagina che Fausto Bertinotti dica ad un gruppo fondamentalista di musulmani residenti in Italia di "andare all'inferno." Immagina che a causa di questa e simili esternazioni i sondaggi gli attribuiscano una percentuale di voti pari o superiore al Pd. E immagina anche che la Sinistra arcobaleno vada a togliere consensi ad un partito molto popolare di estrema destra, una specie di mostro di Frankenstein a metà fra la Lega e La Destra di Storace.

Trasposto all'Italia, questo è, per grosse linee, lo sviluppo più significativo nella politica danese dell'ultimo mese. Evito di tradurre nomi, cognomi e sigle; quello che è interessante è a mio parere immaginare uno scenario italiano comparabile e, attraverso quello, capire dove sta andando l'agone politico, o perlomeno la comunicazione politica.

Il compromesso è un'arte sottile e profondamente radicata nella cultura dialettica dell'Europa settentrionale. Piuttosto che al ribasso, è generalmente visto come qualcosa 'al rialzo', frutto della sintesi e dell'abilità di saper assorbire e rielaborare costruttivamente le critiche.

La comunicazione politica in Italia, come sappiamo, è perdutamente polarizzata; basta leggere fra le righe di questa campagna elettorale. Nelle prime settimane, una discussione relativamente pacata fra i partiti maggiori aveva fatto agitare immediatamente lo spettro dell'inciucio--non esattamente il sinonimo di una sintesi al rialzo. E la critica più irriverente, perchè probabilmente credibile, a Veltroni è quella del buonismo 'ma-anchista'. Ora sembra essere tornati al caro vecchio 'manicheismo', al muro contro muro senza troppa soluzione di continuità.

Mi risparmio la conclusione facile e forse logica che la politica nordica avrebbe più bisogno di scontro vero, e quella italiana di compromessi più alti. Mi limito ad osservare il paradosso di un paese come la Danimarca che sembra assuefatto al compromesso, e di un multiculturalismo per molti versi fuori controllo apparentemente necessario a farla risvegliare dal torpore della dialettica politically correct.

Per quanto riguarda l'Italia, evito di addentrarmi in considerazioni fantapolitiche su Grosse Koalition o governi tecnici in caso di pareggio. Mi domando che fine abbia fatto l'abilità della nostra classe politica di comprendere le potenzialità a lungo termine della politica bipartizan, specialmente in fasi come quella attuale, in cui la crisi delle istituzioni e lo stato malandato dell'economia richiederebbero scelte concordate.

E mi limito a ricordare che è stato appena celebrato il trentennale del rapimento di uno statista che per il 'compromesso storico' finì col pagare il prezzo più alto.

Friday, 14 March 2008

L'"irruzione" e il pentalogo

Leggo della politica estera che "irrompe" nella campagna elettorale, dopo le dichiarazioni di Antonio Martino su Libano (ns militari out) ed Iraq (ns militari in, again). Ho il sospetto che questa rimarrà una delle rarissime volte nelle quali si parlerà di politica estera in questa campagna elettorale, e francamente mi sembra sia stata un'occasione persa.

Come (sorprendentemente!) si legge in molte delle reazioni all'intervista a Martino, entrambe le questioni dovrebbero essere affrontate nel quadro degli impegni internazionali già presi. Si potrebbero (ri)discutere le regole d'ingaggio. Ma la nostra presenza militare in Libano e un ritorno in Iraq fanno entrambi parte di una discussione largamente legata al contingente.

Ci sarebbero invece dozzine di questioni più strutturali che non solo superano lo stereotipo centro-sinistra/europeista vs. centro-destra/atlantista, ma che richiederebbero qualche riflessione più approfondita, anche se il disaccordo fra i contendenti non è lampante.

Un pentalogo molto minimalista richiederebbe qualche parolina su almeno alcune delle seguenti questioni:

1) Come pensa di comportarsi il nuovo governo nel caso di nuova instabilità nei Balcani?

2) Come si comporterà il nuovo governo--filo-turco sia a destra che a sinistra--nel caso, probabile, che il processo di allargamento Ue alla Turchia si areni di nuovo?

3) Come può l'Italia--uno dei principali partner economici dell'Iran--giocare un ruolo più attivo nei negoziati sul nucleare?

4) Come agirà il nuovo governo--nella sostanza filo-russo sia a destra che a sinistra--riguardo all'involuzione autocratica del Cremlino post-Putin?

5) Quale sarà la posizione del nuovo governo italiano in merito all'Unione per il Mediterraneo di Sarkozy? (Ottimo post a riguardo sul blog di ItalianiEuropei).

Ecco, mi piacerebbe tanto ascoltare i due candidati premier esprimere un'opinione su alcune di queste questioni. Ma fra precari insultati e Ciarrapichi candidati dubito fortemente che avrò il piacere.

PS: Per la cronaca, l'omissione sul Tibet è voluta. Senza nulla aggiungere sulla gravità della situazione, è il classico tema che si presta molto al populismo elettorale e poco al dibattito programmatico, così come fu la Birmania nelle primarie del Pd .

Wednesday, 5 March 2008

Nominations: buone, brutte e cattive

Quella di John McCain, innanzitutto, che secondo me stramerita e che promette bene per la campagna 'vera' in autunno. McCain è per certi versi un candidato sui generis, un maverick come si dice sempre di lui. Detto questo, il messaggio dell'elettorato repubblicano di superare la polarizzazione dell'era Bush è forte e chiaro. (Non è un caso che Bloomberg, il potente sindaco di New York, abbia abbandonato ogni proposito di candidarsi come indipendente).

Per i democratici, come si sa, la strada è tutta in salita. Non ho mai creduto che Obama fosse all'improvviso diventato un candidato 'inevitabile,' così come non credo che la bolla sia improvvisamente scoppiata ieri. Certo è che il logoramento che si prepara per questa primavera gioverà solo al circo dei media (oltre a McCain, naturalmente).

L'altro giro di nominations riguarda le liste del Pd. Il sistema elettorale e la cooptazione endemica che ha caratterizzato l'operazione mi rende proprio difficile chiamarle candidature. L'esempio più ovvio, e secondo me, più sciatto sono le parole 'ds', 'margherita' e, ancor peggio, 'donna' e 'uomo', stampigliate sulle liste di alcune regioni quando, evidentemente, per i nomi e cognomi ancora si stavano scannando.

Più delle polemiche sugli inclusi e sugli esclusi, più delle faide intestine, più dei campanilismi e dei particolarismi: ad essere in dissonanza col messaggio di rinnovamento che il Pd sta cercando di far filtrare secondo me è proprio la sciatteria con la quale sono state presentate queste liste. Forse--mi auguro--è solo un'impressione.

Thursday, 28 February 2008

Quello che Mosca non si aspetta

Domenica si vota in Russia per le presidenziali. Ho già scritto di Russia qualche volta su questo blog e non mi dilungo ora, semplicemente perchè non c'è molto su cui dilungarsi. Il presunto liberale-liberista Medvedev diventerà presidente e Putin, per lo meno inizialmente, sarà il suo burattinaio.

Ciò di cui si potrebbe parlare è ciò che l'Europa e l'Occidente dovrebbero/potrebbero fare. Ne ho scritto, per una volta in italiano, nel numero di ItalianiEuropei uscito ieri. E la mia tesi è fondamentamente che se l'Europa vuole essere presa sul serio a Mosca, dovrà fare ciò che la Russia meno si aspetterebbe: essere pragmatica. Non posso aggiungere di più, ma se si ha voglia di comprare la rivista, che fra l'altro celebra il suo decennale, devo dire che in questo numero sono davvero in ottima compagnia.

Wednesday, 27 February 2008

Filtri

Assenza dal blog dovuta a cause di forza maggiore: piuttosto semplicemente, non ci vedevo. Dopo un'operazione durata esattamente 34 secondi per occhio, via montature, lenti, filtri, e con un po' di pazienza riuscirò a fissare di nuovo lo schermo per più di dieci minuti.

A proposito di filtri: mi informano che un mio rapporto è filtrato settimana scorsa in una disputa fra Parlamento Europeo e Consiglio Ue. Onestamente, mi pare che il mio messaggio sia stato un po' manipolato. Facciamo che per questa volta non l'ho visto. Per cause di forza maggiore.

Sunday, 17 February 2008

Inevitabile

Non è deprecabile, ma non era neanche particolarmente auspicabile. Non è illegittimo, ma non è formalmente legale. Oggi il Kosovo si auto-proclama indipendente ed era semplicemente inevitabile.

L’indipendenza non è deprecabile ed è legittima per ragioni di storia recente. I kosovari hanno sofferto e hanno pagato. Hanno vissuto sotto l’egida dell’Onu per 9 anni (qualcosa che, mi dicono, non si augura a nessuno) con la promessa (risoluzione 1244) che il loro status giuridico e politico sarebbe stato prima o poi chiarificato. La comunità internazionale ha provato per mesi a ‘chiarificare’, e alla fine adotterà in pratica quella soluzione di “indipendenza supervisionata” proposta in teoria dall’ex presidente finlandese Ahtisaari.

Il problema, com’è noto, è che i russi si sono impuntati a New York e che la soluzione non è stata benedetta dal Consiglio di sicurezza. Ergo, è formalmente illegale e non particolarmente auspicabile. Peggio ancora, gli americani sono ardentemente a favore dell’indipendenza mentre gli europei saranno, nuovamente, divisi ed alcuni stati come Cipro e la Romania non riconosceranno il Kosovo.

La Serbia e la Russia non staranno a guardare. Belgrado imporrà sanzioni economiche al neonato stato e chiuderà il confine a nord. La Russia non perderà occasione per rinfacciare la vicenda kosovara in altri contesti, anche se dubito che spingerà per l’indipendenza dell’Abkhazia, della Transniestria, o dell’Ossezia meridionale. Mosca può parlare minacciosamente di un ‘precedente’ kosovaro fino a sfiatarsi, ma l’indipendenza di queste altre pseudo-entità semplicemente non le converrebbe.

Quel che è inevitabile è che oggi si apre un nuovo impegnativo capitolo nell’interminabile storia dei Balcani e in quella più recente della politica estera europea. Il Kosovo ha deciso di andare con le sue gambe ma le serviranno anche quelle di qualche centinaio di doganieri, poliziotti e giudici europei. E quelle di 16 mila soldati NATO che continueranno a tentare di evitare che gli albanesi e i serbi si scannino a vicenda.

Il problema vero è che il Kosovo rischia seriamente il collasso prima ancora di nascere. I kosovari sono circa due milioni, ma non esiste un censo attendibile della popolazione—un handicap non indifferente quando si tratta di costruire uno stato praticamente dalle fondamenta. Si sa che il livello di disoccupazione sia altissimo, circa il 40% della popolazione. Solo il 10% delle donne kosovare ha un lavoro. E il Kosovo ha il più alto tasso di crescita demografica in Europa, che secondo il Financial Times si traduce in 30 mila giovani kosovari in più sul mercato del lavoro ogni anno.

L’Europa dovrà rimboccarsi le maniche e incrociare le dita, possibilmente in quest’ordine.

Tuesday, 12 February 2008

L’Ararat, un Nobel e un taxi

Cos’hanno in comune il monte Ararat, un premio Nobel e un taxi? Assolutamente niente, a parte il mio weekend.

Sono stato, per la prima volta, a Yerevan, la capitale dell’Armenia all’ombra del monte Ararat (sì, quello dell’Arca di Noè): paese congelato in un conflitto ventennale con l’Azerbaijan, governato da un regime che Freedom House valuta solo "parzialmente libero" e che si avvia sonnacchiosamente alle elezioni.

Contesto classico per uno degli aspetti meno simpatici del mio lavoro: parlare di democrazia in un paese in transizione, e di pace in un paese in guerra. E ancor meno simpatico: fare ragionamenti che non sembrino lezioni quando gli ascoltatori sono gente che soffre in pratica quella transizione e quei conflitti di cui noi occidentali cianciamo in teoria.

Devo dire, però, che la cosa questa volta ha assunto un margine di credibilità grazie alla partecipazione alla conferenza di Lord David Trimble, premio Nobel per la pace del 1998. Il professor Trimble, che ebbe il premio a riconoscimento del suo lavoro per il processo di pace nell’Irlanda del Nord, non ha nascosto di conoscere poco del conflitto nel Nagorno-Karabach.

Però ha la possibilità di fare quello che pochi politici e pochissimi ‘esperti’ occidentali possono permettersi di fare: dare consigli su conflitti e democrazia che non solo hanno un fondamento pratico, ma che hanno anche avuto successo.

Che c’entra il taxi? C’entra perchè la conferenza per me si è conclusa con una corsa in taxi nella notte armena con Trimble. Dopo cena e, soprattutto, dopo generose dosi di vodka, il tono della conversazione non poteva essere dei più profondi.

Guardo caso, però, venerdì erano apparse sui giornali le dichiarazioni del capo della Chiesa anglicana in merito alla possibilità di introdurre elementi della sharia nell’ordinamento giuridico della Gran Bretagna. La breve conversazione che ne è seguita in taxi devo tenermela per me ma me la ricorderò finchè campo.

PS: Un mio corsivo vagamente ispirato dalla gitarella caucasica (su The EU Observer, e tradotto in spagnolo da qualche anima pia), sarà oggetto, domani, di due mie interviste a Europolitics (anche nel francese di qualche altra anima pia) e a Deutsche Welle.

Monday, 4 February 2008

"Il centro-sinistra ricorda da vicino la ex-Jugoslavia"

Dopo il risultato coraggioso delle presidenziali di ieri in Serbia, mi viene di rispondere: "magari."