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Sunday, 2 November 2008

It really is time

Un po' per scelta, un po' per una cronica allergia all'hi-tech, ci ho messo più di un anno a caricare la prima foto su questo blog. L'occasione mi sembra di quelle che meritano.

Mi
è capitato diverse volte di parlare qui delle elezioni americane. All'inizio ero li', poi l'ho vista da qui, poi ero di nuovo lì. Mi è capitato di spendere qualche parola per John McCain, un politico che ha un track-record di indipendenza invidiabile e di cui qualsiasi democrazia non potrebbe che giovarsi. Ho scritto dei vari primari e comprimari (da Joe Biden a Hillary e Bill Clinton) che in un modo o nell'altro hanno animato quell'enorme circo che sono le elezioni americane.

Più di tutto, ovviamente, ho cercato di capire e di spiegarmi la campagna di Barack Obama. Fiumi di inchiostro sono stati spesi sulla questione, e altrettanti ne saranno spesi dopo il 4 novembre, comunque vada.

Se alla fine dovessi sintetizzare in una frase quali sono le qualità del candidato democratico che mi avrebbero portato a votarlo, direi la sua capacità di ascolto. Facile, mi si dirà, parlare di 'Hope' e 'Change' quando non si ha niente da perdere, come era il suo caso all'inizio. Facile dimostrarsi calmo e posato in situazioni di crisi come la Georgia o Wall Street quando si è in vantaggio. Facile dimostrarsi "presidenziale" quando si ha carisma ed eccellenti doti retoriche.

Premesso che non credo che niente di tutto questo sia facile, quello che ho cercato di intuire è stata l'abilità o meno di Obama di imparare in tutti quei settori nei quali il Senatore dell'Illinois non ha alcuna esperienza esecutiva: dalla politica estera all'economia.

L'impressione che ne ho tratto
è stata di un candidato consapevole dei propri limiti ("i will not be a perfect president" ripete fino alla noia nei comizi) ma equilibrato nel circondarsi di persone preparate (soprattutto il team economico) e di scaricare quelli che per un motivo o per un altro si sono rivelati inadeguati (il rev. Wright, o Samantha Power in politica estera).

In un lavoro impossibile come quello di Presidente degli Stati Uniti la capicit
à di tenere occhi e orecchie aperte a chi ti sta intorno mi sembra una qualità fondamentale e, for what it's worth come dicono da quelle parti, credo che Obama ce l'abbia. Per me è più che sufficente per farne il candidato migliore per quel lavoro impossibile.

Saturday, 23 August 2008

Il potere scaltro

Doveva era stanchissimo, eravamo tutti piuttosto stanchi dopo una giornata-maratona di relazioni e dibattitti. Lui aveva pure il fuso orario sul collo. Certo è che quando un paio di mesi fa ho avuto la possibilità di incontrare Joe Biden, la prima e forse principale impressione che mi ha fatto è stata quella di un uomo che conosce "the ways of Washington," come si dice da quelle parti.

Il suo discorso in quell'occasione fu abbastanza carico retoricamente, il Senatore si smarc
ò piuttosto abilmente da domande a trabocchetto su McCain e Obama, e il messaggio finale che mi lasciò alla fine potrebbe non essere rivoluzionario, ma è ampiamente condivisibile--in puro stile ways-of-Washington. Non esiste "hard power" (L'America, ndr) o "soft power" (L'Europa ndr), disse il Senatore, esiste solo lo "smart power", il "potere scaltro".

E scaltri, a mio parere,
i democratici si sono dimostrati. La guerra in Iraq sembra essere stata sorpassata nei sentimenti degli elettori americani dalla crisi economica. Gli sviluppi della situazione in Georgia, però, sono un monito abbastanza esplicito che quello che Bob Kagan chiama il "Ritorno della Storia" è una realtà che potrebbe ricominciare a pesare in campagna elettorale. Serviva un uomo di esperienza in politica estera per accompagnare Obama alla Casa Bianca, e Biden lo è.

Biden presiede la Commissione affari esteri del Senato e ha un discreto pedigree bipartizan. La sua lunga permanenza in politica minerà un po' il messaggio di cambiamento con cui Obama ha martellato gli americani nell'ultimo anno. E McCain probabilmente se ne servirà per confermare che il cambiamento proposto da Obama è tutto fumo e che il giovanotto in fondo non è preparato. Nelle settimane più recenti, i sondaggi (per quello che valgono) suggeriscono che la tattica dell'attacco frontale funziona. D'altro canto, per Obama, era quasi una scelta obbligata, e adesso i democratici dovranno lavorare per cercare di far quadrare il cerchio intorno a questo ticket ben assortito ma eterogeneo.

Tifo spudoratamente che riescano a rimanere scaltri fino alla fine.

Wednesday, 13 August 2008

Le morali di una guerra

La Russia sostiene che ha cominciato la Georgia. La Georgia dice che hanno cominciato i russi. Francamente, non importa. I conflitti cosiddetti 'congelati' (quasi un ossimoro) in Ossetia del Sud, e quello parallelo in Abkazia, hanno bollito per oltre un decennio e segnali di un'esplosione vera e propria sono stati frequenti negli ultimi mesi. Adesso la guerra è esplosa e quello che veramente conta è cercare di intravedere le conseguenze.

La prima direi
è che la Russia, per la prima volta dall'elezione di Putin nel 2000, ha dimostrato che alle parole (e qualche interruzione energetica) seguono i fatti. La Russia difficilmente sarà isolata dopo la guerra. L'occidente non se lo può permettere e il mondo non è più unipolare.

La seconda
è che Saakashvili ha tirato troppo la corda. L'avevo scritto qualche mese fa: il presidente georgiano è giovane ed ambizioso, due attributi pericolosi in un paese come la Georgia. Comunque siano andate veramente le cose, Saakashvili ha alzato i toni, provocato, e portato la Georgia sull'orlo di un'invasione russa fino a Tbilisi. Ora rischia il posto, ma anche se non lo rischiasse, ha decisamente perso l'aura di eroe romantico che si era creato e che gli americani hanno sostenuto e promosso.

La terza conseguenza riguarda proprio gli Stati Uniti. Con Bush a fine mandato, ai minimi storici di popolarit
à e con l'esercito 'overstretched' in Iraq, era inverosimile immaginare un sostegno militare americano. Che però Washington, in questa occasione, si sia praticamente limitato a facilitare il rimpatrio dei soldati georgiani di stanza in Iraq e a sostenere la missione europea guidata da Sarkozy la dice lunga sulla posizione degli Stati Uniti e sulle conseguenze per Tbilisi. La Georgia è un paese che si è inventato un americanismo quasi kitsch: la prima cosa che il passeggero incontra all'uscita dell'aeroporto di Tbilisi è un enorme poster con George W. che digrigna la mascella e saluta con la manina. I georgiani erano arrivati a sperare che potessero presto entrare nella NATO, grazie al sostegno americano. Quel sostegno non è servito in occasione dell'ultimo vertice dell'Alleanza, ed è molto, molto improbabile che arrivi ora.

Wednesday, 2 April 2008

O Bucarest, o morte

La prima, e per ora unica, volta che ho ascoltato Viktor Yushchenko e Mikheil Saakashvili parlare è stato un paio di anni fa nel mastodonte di marmo bianco costruito da Ceausescu a Bucarest. I presidenti di Ucraina e Georgia ritornano in quel palazzo oggi per il vertice della NATO. La differenza, questa volta, è che presumo parleranno poco e ascolteranno tanto.

Solitamente i vertici internazionali sono vetrine per decisioni, talvolta storiche, contrattate in anticipo. Dopo mesi di negoziati, però, questa volta i capi di stato dell’Alleanza atlantica si incontreranno senza aver raggiunto un compromesso sulla possibilità di avvicinare la prospettiva di adesione per Kiev e Tbilisi.

Le posizioni contrapposte sono quelle solite, e aggiungo purtroppo. Si sa che gli americani vogliono spingere sull’acceleratore. E si sa anche che la Russia, con Putin in una delle sue ultime uscite ufficiali da Presidente (poi si vedrà), darà battaglia.

Io sono convinto che la prospettiva del cosiddetto Membership Action Plan (MAP), testa di ponte verso l’adesione, debba essere offerto a questi due paesi. E questo non tanto perchè se lo sono meritato—bisogna pur ammettere che negli ultimi 3-4 anni le ‘rivoluzioni colorate’ si siano tristemente sbiadite. Ma per la loro tenacia nell’avvicinarsi all’Occidente (dopo tutto, i sondaggi in Ucraina danno il supporto popolare per la NATO a meno del 20%).

Il MAP non è nè una scorciatoia nè una garanzia, ma è il segnale che l’Occidente continua a riporre fiducia nelle riforme e nella transizione dei paesi ex-Sovietici. Sia Yushchenko che Saakashvili sanno che quel segnale, per ora, non arriverà dall’Ue, e possono solo sperare che l’avanzamento verso la NATO possa giocare lo stesso ruolo che giocò per paesi come la Polonia, che entrarono nell’Alleanza 5 anni prima dell’Ue.

In tutto questo, il “purtroppo” riguarda le posizioni di Francia e Germania, che si oppongono al MAP per questi due paesi. La cosa che personalmente mi delude è la continuità di Merkel e Sarkozy, che dopo tutto sembrano mantenere le supine posizioni filo-russe dei loro predecessori, a dispetto di proclami all’apparenza coraggiosi.

Per una volta, la partita si gioca tutta al vertice. Non sarà la fine del mondo se la NATO risponderà picche questa volta. Ma la dirà lunga sulle nostre capacità di ricompattarci di fronte alla Russia.

Wednesday, 28 November 2007

A (come Annapolis) Day

Si è appena conclusa, a pochi chilometri da qui (Annapolis), la conferenza internazionale sulla pace in Medio oriente. Per l'osservatore casuale di affari esteri, il risultato è piuttosto scontato ma non trascurabile: palestinesi e israeliani hanno fondamentalmente concordato di non essere d'accordo.

Per una volta, però, sembra essere più una questione di tempi che di modi. O meglio: si sa esattamente, e almeno dal 2000, ciò su cui si deve negoziare (rifugiati, status di Gerusalemme, riconoscimento dello stato di Israele, occupazioni israeliane in Cisgiordania etc.). Non mi pare sia ancora chiaro quando farlo.

Oggi, israeliani e palestinesti si sono impegnati a chiudere il confronto entro il 2008. Ma i rappresentanti delle tre parti in causa (Olmert, Abbas e Bush) sono politicamente uno più debole dell'altro e prima di impegnarsi in grandi proclami per la pace dovranno fare i conti con il dissenso interno. Staremo a vedere.

PS: Sbirciando la lista dei partecipanti alla conferenza, non può passare inosservata la solita inutile sfilza di europei. Per la precisione, 12 paesi, + Commissione, Consiglio europeo e Solana. Per la politica estera comune, evidentemente, c'è ancora molto tempo.

Wednesday, 14 November 2007

Baciamo le mani

Forse ispirato dagli ultimi arresti mafiosi, mi sono imposto la visione del Padrino di Coppola (3 film x 3 ore l'uno, in un weekend morto gli si fa). Tralascio lodi ai primi due film e cercherò di sorvolare sul terzo che, oltre al plot un po' forzato su P2, Vaticano e Roberto Calvi, soffre della recitazione strappalacrime (di dolore dello spettatore) di Sofia Coppola nei panni della figghia di Don Corleone.

Una delle cose che mi hanno colpito di più, questa volta, è la raffigurazione della realtà italo-americana. Multiforme e mutevole, e certamente mutata rispetto agli anni a cui il film fa riferimento. Ma non troppo diversa nei valori e costumi da quella, per esempio, raffigurata nei Sopranos, che è ambientato ai giorni nostri (a proposito, lo danno in Italia?).

Dopo qualche mese a zonzo per la East Coast mi sono effettivamente reso conto che la realtà dei film non è poi troppo stereotipata. Non mi riferisco qui ovviamente ai cittadini italiani che volente o nolente, hanno deciso di abitare qui, nè allo stereotipo della criminalità organizzata. Mi riferisco a quella comunità, numerosa, di cittadini americani che si è radicata in delle tradizioni ed abitudini italiane che in Italia non esistono quasi più.

Incidentalmente la cosa mi fa pensare agli immigrati in Europa. Fenomeno diverso, parallelo forzato, mi si dirà. Ma poi penso ai (3,7 milioni di) turchi che vivono in Germania e ai miei amici di Istanbul o Ankara. Penso ai rumeni in Italia e ai miei amici di Bucharest o Sibiu. E penso a tutti quei tedeschi ed italiani che oggi sputano sentenze inappellabili su Turchia e Romania.

Cronaca alla mano, non posso biasimarli. Ma credo ci sia una tendenza a sottostimare quanto l'immigrazione influenzi la percezione di un determinato paese.

Monday, 8 October 2007

Pubblicità progresso

Il Washington Post ha pubblicato negli ultimi tempi alcune pubblicità discutibili, ricevuto proteste dei lettori e Deborah Howell - l'Ombudsman del giornale - ha ritenuto opportuno intervenire.

Sui casi specifici, alcune proteste sono abbastanza scontate: pubblicità violenta o al limite della decenza nella parte del giornale dedicata ai bambini. Altre, dal mio punto di vista, più interessanti e riguardano per esempio la pubblicità della General Motors, che cita stralci di articoli dello stesso Post per dare credibilità alle sue campagne di protezione ambientale. (Manovra oggettivamente sospetta, in un periodo come questo nel quale si dibatte acremente di cambiamento climatico e del futuro 'post-Kyoto'). In entrambi i casi, l'Ombudsman ha rassicurato i lettori e ammonito il giornale, con un corsivo diciamo così 'di servizio' pubblicato nell'edizione domenicale.

Non credo mi sia capitato di leggere articoli del genere sui quotidiani italiani. E mi domando se, aldilà dell'authority, codici di autoregolamentazione etc, la procedura esista. Da lettore, la cosa mi sembra più che apprezzabile.

Wednesday, 3 October 2007

Note sparse sulla politica giovane

La costituzione vieta a Vladimir Putin (55 anni) di ricandidarsi alla presidenza russa ma nessuno ha mai creduto che Putin si sarebbe ritirato così giovane. Puntualmente lunedì ha indicato che nel 2008 si potrebbe candidare al posto di primo ministro (da lui già occupato nel '99). Il che vorrebbe dire che il nuovo presidente russo (chiunque sia) diventerà poco più influente della regina d'Inghilterra.

A proposito di Gran Bretagna, continuano a scorrere fiumi d'inchiostro sul dopo-Brown. Ipotesi non del domani ma forse del dopodomani, e utile per dare uno sguardo all'anagrafe della politica inglese, nella quale i Cameron (41 anni) o i Miliband (42) non sono neanche tanto enfants prodiges.

Nel frattempo, Yulia Tymoshenko (46 anni) ha fatto faville nelle elezioni in Ucraina domenica scorsa. È possibile che la Pasionaria possa essere nominata primo ministro. Purtroppo, però, quel paese disgraziato continua a rimanere in bilico e la Russia ha già minacciato di tagliare nuovamente il gas.

Per quanto mi riguarda, mi sono confrontato e confortato giorni fa col sindaco di Washington, l'iperattivo Adrian Fenty: 37 anni, democratico e di origini italiane (anzi, Frosinoooun, come dice lui). Per me una rivelazione. Che sia di buon auspicio per il candidato suo coetaneo in Italia.

Infine, domani sarò a Houston, Texas per partecipare ad un dibattito del Young Leaders Program promosso dal Consiglio per le Relazioni fra Italia e Stati Uniti. Temi: energia e ambiente. Non potrebbe essere più appropriato, in Bush-country.

Sunday, 30 September 2007

La negazione e il complotto

Il mio padrone di casa qui a Washington (un europeo) mi ha detto che uno dei fattori per i quali ha deciso di affittarmi casa è che, in quanto europeo, sono sicuramente pro-palestinese. Gli ho risposto che in realtà non lo sono, che non sono anti-israeliano e che sono soprattutto piuttosto allergico a dicotomie di questo tipo.

E non l'ho detto all'indomani della visita contestatissima del negazionista Ahmadinejad. L'ho detto perchè oggettivamente in America la questione è talmente delicata che o si prende una posizione netta e possibilmente documentata, oppure è meglio cambiare discorso.

Qui non farò né l'uno né l'altro (se si ha una mezz'ora, però, ne ho scritto qui). Mi limito a constatare il polverone causato da un articolo (diventato libro il mese scorso) di John Mearsheimer e Stephen Walt, politologi a Chicago ed Harvard rispettivamente.

The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy spiega di come ed in che misura gli ebrei americani influenzino la politica estera degli Stati Uniti. È una tesi vecchia quanto il mondo, ma date un'occhiata alla quantità, e soprattutto al tono, delle critiche piovute sugli autori.

Sunday, 16 September 2007

Let's talk welfare

Ho scritto giorni fa che gli italiani all'estero non sono "specie protetta" ma una risorsa che potrebbe e dovrebbe contribuire al dibattito nel nostro Paese con un bagaglio di esperienze e conoscenze largamente sottostimato. Provo razzolare un po' sul predicato parlando di welfare.

Personalmente ho avuto l'opportunità di vedere da vicino due realtà teoricamente agli antipodi per quanto riguarda il modello di stato sociale che propongono: gli Stati Uniti e la Danimarca.

Ho sentito diverse persone parlare molto positivamente--udite, udite--della sanità americana: servizi all'avanguardia, professionalità impeccabili ecc. Ma i limiti di questo sistema sono ultranoti e non è necessario andarsi a vedere Sicko di Michael Moore per capirli. Un sistema nel quale un cittadino su 7, 47 milioni di persone, non è coperto da assicurazione sanitaria è strutturamente predisposto a squilibri enormi.

Più controverso è criticare il modello scandinavo. Un sistema nel quale, per esempio, i sussidi di disoccupazione raggiungono l'85% dello stipendio e vengono erogati fino a 4 anni dopo il licenziamento farebbe sentire qualsiasi residente straniero come Alice nel paese delle meraviglie. E diverse voci autorevoli (vedi per esempio qui e qui) si sono spese sull'opportunità di importare nel nostro Paese alcuni elementi di questo modello, fra gli altri la cosiddetta 'flexicurity'.

La realtà però è più complessa. Un sistema dinamico e oggettivamente generoso come quello danese, per esempio, fatica enormemente a gestire ed integrare i flussi migratori, ha prodotto la legislazione sull’immigrazione più rigida d'Europa e profonde fratture all’interno delle realtà locali.

Ora: è facile dire che un modello di welfare sostenibile ed equo debba coniugare solidarietà e competitività, diritti del cittadino e pragmatismo, trasparenza ed efficienza. È più difficile trovare risposte adattabili ad una realtà frammentaria come quella italiana. Per questo non è superfluo discutere del funzionamento concreto, quotidiano del welfare in altri paesi europei.

E sulla base delle esperienze di riforme in altri paesi europei, non è superfluo porre, in modo costante, martellante, la madre di tutte le domande: nell'Italia gerontocratica di cui parla Mario Adinolfi, a chi giova parlare di welfare? Per la nostra generazione, è una domanda tutt'altro che retorica.

Wednesday, 5 September 2007

Quando i conti devono tornare

L'autunno politico qui in America è cominciato col botto. Ovvero, con la visita a sorpresa del Presidente Bush lunedì scorso in Iraq. È la terza volta che Bush vola in Iraq dall'inizio della guerra nel 2003 e la tempistica non è casuale.

Settimana prossima i massimi rappresentanti militari e civili americani in quel paese disgraziato faranno rapporto al Congresso sulla situazione. È molto probabile che, subito dopo gli accenni di rito alla realtà difficile, complessa ecc, parleranno di visibili miglioramenti e tesseranno le lodi della cosidetta "surge", l'aumento di 30 mila truppe deciso da Bush quest'anno.

In questo contesto si inserisce la visita di Bush e il via vai incessante di politici, diplomatici ed analisti in Mesopotamia. Tutti, di questi tempi, tornano invariabilmente folgorati sulla via di Baghdad e parlano di miglioramenti e della necessità di mantenere le truppe.

Niente da eccepire, se non fosse che questi eminenti visitatori viaggiano in Iraq superscortati--Sen. McCain docet--e, se vanno nella capitale, raramente mettono piede fuori dalla "green zone" (sul tema, c'è anche un interessante articolo del Washington Post).

Fossi in loro, non mi azzarderei a fare diversamente, ma forse mi risparmierei corsivi su corsivi ad esaltare la lungimiranza del Comandante in Capo.

Tuesday, 28 August 2007

Back to Europe

Giovedì parteciperò ad una conferenza sulle relazioni fra Europa e Stati uniti organizzata dall'Università di Dublino.

Ventotto ore non saranno sufficenti per apprezzare le meraviglie di Dublino né per capire i segreti di questa 'tigre celtica' (crescita media del pil intorno al 5-6% negli ultimi anni). Ma sono abbastanza per incontrare i nostri sostenitori alle primarie.

Wednesday, 22 August 2007

Haleh Esfandiari è libera, pare

Le autorità iraniane hanno annunciato la liberazione di Haleh Esfandiari, un'analista del Woodrow Wilson International Center for Scholars, dopo centodieci giorni di prigionia.

Ho avuto modo di avvicinarmi a questo caso durante la mia collaborazione con il Wilson Center, una think-tank di Washington, quest'anno. Le motivazioni e la dinamica dell'arresto rimangono ancora piuttosto oscure e ad oggi non è ancora chiaro se la professoressa abbia effettivamente lasciato la famigerata prigione di Evin a Teheran e quando le sarà dato il permesso di lasciare il paese.

Ma a questo punto mi auguro vivamente di poter incontrare la dottoressa Esfandiari, libera, nel suo ufficio di Washington.

Thursday, 16 August 2007

The Ground Truth

Eviterò, per ora, litanie sull'Iraq; ho l'impressione che, stando qui, alla fine mi uscirà dalle orecchie. Stasera, però, non posso non fare un riferimento in passim. Abbiamo infatti appena partecipato alla proiezione, piuttosto underground, di The Ground Truth, un film-documentario cum dibattito sui veterani della guerra in Iraq.

Che la cosa fosse underground non è un gioco di parole col titolo del film. La manifestazione è stata effettivamente organizzata da una specie di centro sociale nei locali di una comunità cristiana (in Europa sarebbe un paradosso, ma tant'è). Gli organizzatori sono un gruppo di pressione chiamato Iraq Veterans Against the War (IVAW) e il dibattito è stato moderato ed animato da uno dei veterani.

Il documentario è toccante. Farò forse un complimento esagerato al regista, ma in alcuni passi mi ricordava Full Metal Jacket di Stanley Kubrick. Il tono è un j'accuse indiretto ma efficacissimo, impastato nei singhiozzi di questi ventenni menomati, fisicamente e psicologicamente. Film duro, ma da vedere.

Tuesday, 14 August 2007

E pluribus unum

Tradotto liberamente, il motto in latino del governo degli Stati Uniti è davvero 'melting pot'. Ed il primo impatto con Adams Morgan, il quartiere di Washington dove ho trovato casa, conferma molti degli luoghi comuni sulla molteplicità dell’America.

Il comitato di zona ci tiene a sottolineare che la zona sia 'residenziale'. Quello che vedo io è un allegro carnevale di afro-americani, italiani ed ispanici, moltissimi ispanici. Per qualche no-global, vedere la capitale dell'impero tappezzata di cartelli stradali e poster pubblicitari di McDonald's scritti interamente in spagnolo dev’essere l’ottava meraviglia del mondo. La realtà mi sembra molto più complessa, ma staremo a vedere.

Nel frattempo, con il Congresso, l’enorme macchina mediatica e le lobbies in ferie, il mio primo assaggio di politica americana in queste torride giornate agostane é avvenuto per strada ed è stato tanto curioso quanto rivelatore.

Nei pressi del centro, una signora minuscola mi avvicina e mi mette sotto il naso un blocco: è una petizione per chiedere l’impeachment di Dick Cheney. La teoria della rimossione forzata del vice-presidente non è poi così strampalata. Ne ha parlato di recente anche l’Economist: se si dovesse chiedere l’impeachment di Bush, il burattinaio Cheney diverrebbe automaticamente presidente. Tanto vale, allora, tentare di rimuovere direttamente il vice.

Detto questo, sia i tempi che le modalità della campagna mi lasciano perplesso. A fugare i miei dubbi interviene un giovane passante che mi intima di non dare retta agli psicopatici. La risposta della signora è perentoria: "firma qui, firma qui, che quel tizio si fa di anfetamine". Molto anni settanta, le anfetamine, signora. Magari ripasso.