Friday 25 April 2008

Elogio transalpino

Ho sempre pensato che l'approfondimento politico della tradizione televisiva anglosassone--HARDtalk della BBC, per esempio--fosse anni-luce di distanza dai talvolta imbarazzanti sipari che passano per le TV italiane. Domande 'vere', critiche ficcanti e regolari interruzioni del giornalista se il politico di turno comincia a divagare.

Tutto questo, prima di vedere ieri sera la trasmissione con Sarkozy su TV5 Monde. Tavolo triangolare. Seduti da un lato, due conduttori che lo tempestano di domande e lo guardano con lo scetticismo col quale un professore guarda lo studente che non ha fatto i compiti. Dall'altro lato, un altro giornalista o esperto che si alterna a turno ogni 15-20 minuti per domande su temi specifici: economia, immigrazione, società etc. Sul terzo lato, circondato dalle due artiglierie, Monsieur le President Per un'ora e mezza, Sarkozy è stato rosolato a fuoco lento con domande specifiche a ripetizione. Davvero senza tregua.

Sulla sostanza, alcune delle cose che ha detto mi hanno lasciato perplesso. Per esempio, si è detto certo che Italia e Spagna non faranno più 'amnistie' di clandestini come quelle di qualche anno fa (circa 700 mila richieste in entrambe i casi, se non ricordo male), e onestamente con l'aria che tira non ne sono troppo sicuro.

Però bisogna dargli atto che ci sa fare: molto preparato sui numeri, mai a disagio sulle critiche, molto avvocatesco nel modo di arringare il pubblico. E poi l'adrenalina: sembra che l'aggettivo più frequente che sia stato attribuito a Sarkozy in questo anno scarso di presidenza sia 'iperattivo.' Vedere per credere.

Tuesday 22 April 2008

La flexicurity e la pigrizia

Su questo numero della prestigiosa rivista americana Foreign Affairs c'è un articolo a mio parere interessante di Robert Kuttner intitolato "The Copenhagen Consensus".

Attraverso dati ed interviste a sindacalisti, politici ed industriali danesi, l'autore ripercorre le ragioni storiche e politiche del modello danese ed in particolare della "flexicurity", il risultato piu' evidente di un consenso propriamente scandinavo che coniuga un mercato del lavoro altamente flessibile con generosi ammortizzatori sociali.

In periodi di campagna elettorale, in Europa come in Nord America, capita spesso a politici ed intellettuali di lanciarsi in paralleli fra il modello danese e quelli dei loro stati di appartenenza. È successo anche in Italia durante le elezioni precedenti (qui e qui), meno in questa, triste ultima tornata.

A queste proposte, solitamente, seguono una serie di distinguo: si possono importare aspetti della flexicurity, ma non tutto; gli italiani non pagherebbero mai il 50% di tasse, etc. Ecco Kuttner ha, a mio modo di vedere provocatoriamente, sintetizzato questi e dozzine di altri possibili distinguo con due parole: "path dependence."

"Path dependence" è quel concetto utilizzato dagli economisti dello sviluppo per indicare una sorta di abitudine, ed anche pigrizia, che ci porta a prendere determinate decisioni e ripeterle, anche se magari sappiamo non essere le migliori. Per usare un suo esempio, "path dependence" è il motivo per il quale molti consumatori continuano a comprare i computer targati Microsoft anche se sanno che quelli Apple funzionano meglio.

Secondo Kuttner questo è lo stesso meccanismo che ostacola riforme strutturali in senso "scandinavo" in altri paesi dell'Europa e in Nord America. Teoricamente sia governanti (in buona fede) che contribuenti (onesti) sono consapevoli della bontà dello stato sociale scandivavo. Ma convinti che in Scandinavia questa esperienza sia frutto di circostanze culturali, storiche e sociali uniche e irripetibili, rinunciano ad introdurre anche elementi di quel modello, e fondamentalmente si ostinano a lavorare su quello che hanno.

Onestamente, la devo ancora digerire; ma mi sembra una tesi che meriti di essere ponderata.

Thursday 17 April 2008

Più prosaicamente...

...uno torna in albergo dopo un'immersione del genere, accende il computer e legge del Presidente del Consiglio in pectore che incontra il suo omologo russo prossimo venturo in Sardegna. Didascalia: "vecchi amici".

Ora: capisco che Putin era di passaggio dalla Libia (buono pure quello); e capisco anche che di questi tempi possa sembrare quasi antipatriottico ricominciare con le schermaglie teatrali della politica nostrana. Però che tre giorni dopo le elezioni, il primo leader internazionale che Berlusconi incontri sia Putin (prossimo primo ministro), davvero non me lo spiego. O meglio, me lo spiego fin troppo, ma mi sembra quanto meno fuori luogo.

Sarajevo

Se non fosse per i minareti, per le preghiere che echeggiano dai megafoni, e per le chiese ortodosse, Sarajevo vecchia potrebbe essere tranquillamente un paese nell'appennino umbro. Purtroppo, com'è noto, dal 92 al 95 quei "se non fosse" sono stati la scusa per riempire di lapidi i tanti cimiteri della città (molti dei quali davvero suggestivi).

Sotto diversi punti di vista, la Bosnia rimane un paese congelato nel tempo: ha 3 presidenti, una specie di vicerè internazionale ed un assetto istituzionale ancora ancorato agli accordi forzati da Clinton a Dayton 12 anni fa. Ma molto sta cambiando: proprio ieri, per esempio il parlamento qui ha, dopo anni di negoziati sfiancanti, definito la riforma del corpo di polizia, anch'esso finora diviso in 3. Questo dovrebbe spianare la strada per la firma un'Accordo di Associazione e Stabilizzazione, anticamera dell'accesso nell'Ue.

Nella Commissione Internazionale per i Balcani presieduta da Giuliano Amato si auspicava che i paesi Balcani possano entrare nell'Ue nel 2014, esattamente un secolo dopo l'omicidio di Sarajevo che provocò il casus belli per la prima guerra mondiale. Forse in 6 anni non ci si fa, ma sono fiducioso che Sarajevo quel secolo terribile se lo sia messo definitavemente alle spalle.

Monday 14 April 2008

Amaro e dolce

È molto amaro pensare di essere rappresentato potenzialmente fino al 2013 (duemilatredici!) dal centrodestra, e da questo centrodestra. È oggettivamente amaro vedere tabelle con un divario del 9% (novepercento!) fra le due coalizioni maggiori. E tutto sommato è amaro vedere che la sinistra radicale, per quanto scalcagnata per organizzazione, sparisca dall'agone della democrazia parlamentare italiana.

È secondo me dolce vedere che quasi i tre quarti degli elettori italiani abbiano scelto i due partiti maggiori. Creare un bipolarismo by default e con la "porcata", è una potenziale meraviglia che solo l'elettore italiano poteva cacciare dal cilindro. Ma è "anche" il frutto delle scelte di Veltroni, che ha scommesso sugli sbarramenti e spinto il centro-destra a creare il PdL. E sarebbe dolce immaginare che quel 70% riuscisse a convergere su almeno alcune delle scelte economiche ed istituzionali fondamentali che aspettano la prossima legislatura.

Tutto questo scritto a caldo. Perchè da Belgrado, dove mi trovo a discutere di nazioni che si sgretolano, Europa che si allontana, e disoccupazione al 30%, tutto ha un altro sapore.

Thursday 10 April 2008

La balcanizzazione dell'Italia

Questi ultimi giorni di campagna elettorale si sono imbruttiti per tono e temi. Per certi versi consola sapere che gli italiani all'estero hanno già votato.

Riportai tempo fa una dichiarazione di Angelo Rovati , braccio destro di Prodi, che all'indomani della caduta del governo sostenne che il Centro-sinistra è come l'ex Jugoslavia. Ironia della sorte, lunedì prossimo, mentre i primi risultati di queste inopportune elezioni cominceranno ad invadere siti e tv, io starò parlando agli studenti e docenti dell'Università di Belgrado, per poi spostarmi, 48 ore dopo, a Sarajevo.

Risparmierò all'audience serba citazioni infelici, ma dubito che lunedì riuscirò a togliermi dalla testa quella similitudine. Posso solo sperare che il risultato di queste elezioni non sarà pareggio, frammentazione, stasi: insomma l'ennesima 'balcanizzazione' del panorama politico italiano.

Wednesday 2 April 2008

O Bucarest, o morte

La prima, e per ora unica, volta che ho ascoltato Viktor Yushchenko e Mikheil Saakashvili parlare è stato un paio di anni fa nel mastodonte di marmo bianco costruito da Ceausescu a Bucarest. I presidenti di Ucraina e Georgia ritornano in quel palazzo oggi per il vertice della NATO. La differenza, questa volta, è che presumo parleranno poco e ascolteranno tanto.

Solitamente i vertici internazionali sono vetrine per decisioni, talvolta storiche, contrattate in anticipo. Dopo mesi di negoziati, però, questa volta i capi di stato dell’Alleanza atlantica si incontreranno senza aver raggiunto un compromesso sulla possibilità di avvicinare la prospettiva di adesione per Kiev e Tbilisi.

Le posizioni contrapposte sono quelle solite, e aggiungo purtroppo. Si sa che gli americani vogliono spingere sull’acceleratore. E si sa anche che la Russia, con Putin in una delle sue ultime uscite ufficiali da Presidente (poi si vedrà), darà battaglia.

Io sono convinto che la prospettiva del cosiddetto Membership Action Plan (MAP), testa di ponte verso l’adesione, debba essere offerto a questi due paesi. E questo non tanto perchè se lo sono meritato—bisogna pur ammettere che negli ultimi 3-4 anni le ‘rivoluzioni colorate’ si siano tristemente sbiadite. Ma per la loro tenacia nell’avvicinarsi all’Occidente (dopo tutto, i sondaggi in Ucraina danno il supporto popolare per la NATO a meno del 20%).

Il MAP non è nè una scorciatoia nè una garanzia, ma è il segnale che l’Occidente continua a riporre fiducia nelle riforme e nella transizione dei paesi ex-Sovietici. Sia Yushchenko che Saakashvili sanno che quel segnale, per ora, non arriverà dall’Ue, e possono solo sperare che l’avanzamento verso la NATO possa giocare lo stesso ruolo che giocò per paesi come la Polonia, che entrarono nell’Alleanza 5 anni prima dell’Ue.

In tutto questo, il “purtroppo” riguarda le posizioni di Francia e Germania, che si oppongono al MAP per questi due paesi. La cosa che personalmente mi delude è la continuità di Merkel e Sarkozy, che dopo tutto sembrano mantenere le supine posizioni filo-russe dei loro predecessori, a dispetto di proclami all’apparenza coraggiosi.

Per una volta, la partita si gioca tutta al vertice. Non sarà la fine del mondo se la NATO risponderà picche questa volta. Ma la dirà lunga sulle nostre capacità di ricompattarci di fronte alla Russia.