Thursday, 30 April 2009

Creative destruction

About a year ago, I was sitting at a dinner table in Venice in the rather sorry position of conference rapporteur. Keynote speaker that day was Sergio Marchionne, CEO of Fiat, the Italian automaker. Speaking at the beginning of the subprime-triggered financial crisis, Marchionne centered his whole speech on the need for "creative destruction."

Today, Chrysler heads for "surgical bankrupcy", right after which Fiat will take over a 20% stake in the restructured U.S. automaker, possibly to rise by 51% in 2013. For Marchionne at least, this seems to be a case of creative destruction indeed.

Thursday, 9 April 2009

Fogh, Twitter, and other European stories...

La correzione delle bozze del mio libro prende gran parte del tempo in queste settimane, ma mi ha comunque permesso un paio di scorribande nelle terre e nei temi che mi appassionano.

Prima di tutto un interessante viaggio a Kiev, in un'Ucraina apparentemente devastata dalla crisi economica. Tastare il polso della situazione con ministri ed attivisti nella stessa sala, era un'occasione imperdibile per chi fa il mio lavoro. Ne ho tratto la conclusione che se l'Ucraina sta veramente messa come lamentano le sue autorita' l'Occidente e l'Europa hanno meno responsabilita' di quanto credessi. E' un paese dove lo spreco di risorse umane e' quasi offensivo. Come spesso capita in quei paesi, la sperequazione economica si vede ad ogni angolo--con tante BMW and Mercedes di alta cilindrata quanti sono i mendicanti. Poi ho incontrato casualmente alcuni cantanti lirici dell'Arena di Verona, che mi hanno invitato ad un concerto e fatto sbollire un po' il nervosismo.

Al mio ritorno mi sono ritrovato a discutere in TV della Turchia che si opponeva all'elezione del Primo Ministro Danese Anders Fogh Rasmussen a Segretario Generale della NATO. Ringraziando il cielo, l'ho fatto prima della mediazione di Berlusconi. E comunque la mia impressione e' che i Turchi facessero sul serio. Sono davvero contrari a Fogh, e non a torto a mio parere. Per il nuovo Segretario Generale, o cambia un po' modus operandi, oppure il suo nuovo lavoro si trasformera' in una specie di contrappasso dantesco per quello che ha combinato in occasione della vicenda delle vignette di Maometto (il vicesegretario e' un turco).

Per il resto nell'ultima settimana sono spettatore dalla cosiddetta rivoluzione "Twitter" in Moldova, dove circa 15.000 giovani sono scesi in piazza per protestare contro i risultati elettorali e comunicano fra di loro attraverso il social network di micro-messaging. E' un evento per molti versi simile alle rivoluzioni arancioni e rosa in Ucraina e Georgia. Il problema e' che sono entrambi finite piuttosto male, e francamente (cinicamente) non vedo perche' questa dovrebbe finire diversamente: il sistema paese in quelle terre e' in practica un feudo appannaggio di pochi boss e relative famiglie. Non si puo' ignorare una rivoluzione del genere, ma non ci si deve neanche illudere.

Come tutti, sono rimasto basito, furioso e commosso da quanto sta avvenendo in Abruzzo. Ma di questo, per rispetto, evito di commentare.

Friday, 13 March 2009

Iniezione americana

E' andata a finire che ho trascorso una settimana marcatamente americana senza mai attraversare l'Atlantico.

Prima di tutto ho moderato un'interessante discussione organizzata dalla NATO al Ministero degli Esteri danese. La domanda ridondante e quasi ossessiva era ovviamente cosa fara' e cosa chiedera' Obama agli europei.

Poi il presidente Obama e il ministro Clinton hanno confermato la nomina della mia (ora ex) collega Esther come sottosegretario agli esteri per le organizzazioni internazionali. Occhio e croce, credo sia una delle posizioni piu' alte che si possano raggiungere al Dipartimento di Stato senza la conferma del Congresso.

Ieri e' uscito il mio primo (e spero non ultimo) articolo sul "PostGlobal" del Washington Post. In tempi meno grami, sarei stato meno clemente verso l'Unione europea. Ma per ora credo che possa bastare.

Infine, ho finalmente ricevuto e cominciato a leggere la mia prima copia del New York Review of Books alla quale alla fine ho deciso di abbonarmi. Per chiunque voglia staccare per un po' da Berlusconi e Mourinho, ma se e' per questo anche dal ManU. o Sarkozy, la Review mi sembra una boccata di ossigeno purissimo.

Sunday, 1 March 2009

Roba tosta

Mentre gli europei (occidentali) rifiutano un piano di salvataggio per l'Europa orientale e si aggrappano allo specchio della solidarieta' comunitaria per scongiurare il fantasma del protezionismo, Obama augura buona domenica proprio cosi':

"I know that oil and gas companies won’t like us ending nearly $30 billion in tax breaks, but that’s how we’ll help fund a renewable energy economy that will create new jobs and new industries. I know these steps won’t sit well with the special interests and lobbyists who are invested in the old way of doing business, and I know they’re gearing up for a fight as we speak. My message to them is this: So am I." (Barack Obama, Podcast della Casa Bianca, 28 febbraio 2009).

Friday, 20 February 2009

Tempismo

Mentre il Pd crolla (segue commento dopo il teatrino di sabato), e diversi paesi dell'Europa orientale sono sull'orlo della bancarotta (non sono sicuro se per quando arrivero' a Kiev fra un paio di settimane, l'Ucraina esistera' ancora), ho pensato bene di cambiare casacca e accettare un'offerta del Danish Institute for International Studies--che la rivista americana Foreign Policy ha recentemente incoronato come una delle quattro "stelle del mondo delle think-tank"--dove co-dirigero' un progetto sul futuro dell'"ordine liberale."

Con democrazia e mercati che vacillano, mi sembra tutto interessante assai.

Secondo Foreign Policy, fra l'altro, tutti gli istituti di ricerca con i quali sono (o sono stato) affiliato sono rappresentati: il CEPS di Brussels è quinto in Europa, il Wilson Center di Washington è sesto in America. Anche il Center for Transatlantic Relations, che ad essere precisi non è una think-tank ma parte dell'università, è fra i top-30.

Monday, 2 February 2009

Tre brevi su FB

Un mese di iscrizione e 120 "amici" dopo, mi sento di fare un paio di considerazioni su Facebook.

La prima e' sulla democratizzazione della comunicazione. Se il passaggio dal web 1.0 al 2.0 e' stato caratterizzato da un'apertura del mezzo verso il basso, qui c'e' chiaramente un'ulteriore "orizzontalizzazione". Anche chi non ha molto da scrivere, anche chi non vuole scrivere molto, puo' dire parecchio.

La seconda osservazione e' sulla relativita' del mezzo. La schermata dei cosidetti feeds degli "amici" e' l'esempio lampante che fb sa essere assai dispersivo, e probabilmente la dispersione e' anche uno dei suoi obiettivi. La questione, per lo meno per me, e' che non tutto e' "relativo." Io francamente non mi sento a mio agio a liquidare con un colpo di mouse sul tasto "join cause" questioni sociali o politiche che ritengo serie. Quel che e' peggio, e qui probabilmente pecco di miopia, non ne riesco a vedere l'utilita'.

La terza considerazione e', well, sull'"amicizia". Chi mi conosce sa che non sono esattamente un fan sfegatato di Benedetto XVI. Quando pero' ho ascoltato l'altro giorno sull'autobus dei ragazzini poco piu' che decenni misurarsi a botte di centinaia su chi avesse piu' "amici" su facebook, mi sono domandato se per una volta Ratzinger non avesse qualche ragione a raccomandare prudenza riguardo i social network.

La mia personale sperimentazione non e' ancora finita--e mi auguro che l'onda di fb continui se non altro per trarne qualche considerazione piu' appronfondita. L'ultima volta, quando esplose "Second Life", non feci in tempo a vincere la mia leggendaria pigrizia informatica che il fenomeno si era gia' sgonfiato.

Wednesday, 14 January 2009

Il tabu' Hamas

Una delle condizioni poste dalla comunita' internazionale per dialogare con Hamas e' che riconosca lo stato di Israele. Hamas, fino a prova contraria, e' un partito non uno stato. Da quando in qua i partiti devono riconoscere gli stati?

La richiesta, per inciso, non fa altro che legittimare quanto in realta' Hamas conti negli equilibri mediorientali. Autorevoli osservatori si sono da tempo sgolati a dire che non si puo' prescindere dal cercare il dialogo con Hamas. Questo non significa assecondarne i metodi o le richieste, e non significa nemmeno che il dialogo debba essere sbandierato ai quattro venti. Significa finirla con questa sceneggiata secondo la quale di (ed ad) un'organizzazione terrorista non si debba nemmeno parlare.

Wednesday, 7 January 2009

History repeating

Non mi ero accorto che da quando Ulibo, la scuola dell'allora Ulivo, ha chiuso i battenti, anche governareper, l'annessa rivista, non esiste piu'. Peccato, perche' era un ottimo serbatoio d'idee. Nella circostanza, mi sono andato a ripescare un pezzo che scrissi esattamente tre anni fa sulla crisi Russia-Ucraina del gennaio 2006. Potrei averlo scritto stamattina sulla crisi del gennaio 2009.

L’Europa e la questione russa

Di Fabrizio Tassinari (*)


Le aspirazioni di politica estera ed alcuni degli interessi vitali dell’Unione Europea (Ue) sono stati di recente scossi dalla questione, spinosa e al contempo sottovalutata, delle relazioni con la Federazione Russa.

L’evento scatenante è stata la contesa sorta fra Mosca e l’Ucraina sul prezzo del gas esportato dal gigante russo Gazprom e sul susseguente blocco, durante i primi giorni di gennaio, dell’approvvigionamento di metano, buona parte del quale attraversa l’Ucraina per raggiungere l’Europa.

Sebbene in apparenza distante e marginale, questa controversia affonda le sue radici in un contesto ben più complesso e rilevante per il futuro dell’Europa.

Innanzitutto, la querelle russo-ucraina ripropone prepotentemente il problema della dipendenza energetica europea. L’Ue attualmente importa circa il 50% del proprio fabbisogno energetico da fornitori esterni, quali la Russia, i paesi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale; importazioni che, secondo la Commissione Europea, sono destinate a raggiungere il 70% del totale entro il 2030.

Il sillogismo che emerge da queste cifre è piuttosto elementare: l’economia dell’Ue è fortemente legata all’importazione di gas e petrolio. Gli idrocarburi provengono da paesi notoriamente instabili. Ergo, le ambizioni economiche dell’Ue sono condizionate dai precari equilibri politici che caratterizzano i suoi fornitori energetici.

Negli ultimi anni, l’Ue si è cullata all’idea di aver trovato nella Russia di Vladimir Putin una controparte pragmatica e credibile nel settore energetico. Dopo gli ultimi sviluppi, che includono anche misteriose esplosioni ai gasdotti meridionali che raggiungono la Georgia, si presenta la necessità (e l’opportunità) di ripensare ad alternative per una strategia energetica sostenibile nel lungo termine: fornitori diversi (per esempio nell’Asia centrale), fonti rinnovabili o la controversa opzione nucleare.

La seconda conseguenza della cosiddetta ‘guerra del gas’ è di natura più squisitamente geo-politica. Il nuovo corso filo-occidentale inaugurato un anno fa in Ucraina dalla pacifica ‘rivoluzione arancione’, così come l’analoga ‘rivoluzione delle rose’ in Georgia, non solo un sintomo del progressivo sgretolamento del sistema di alleanze post-sovietico. Rappresentano anche e soprattutto un anelito di democrazia e libertà che si richiama esplicitamente agli ideali del 1989.

Al di là di solenni dichiarazioni d’intenti, però, l’Europa non ha risposto a queste aspirazioni di cambiamento con un segnale chiaro ed inequivocabile. Bruxelles, preoccupata dalle ripercussioni interne dello storico allargamento del 2004, si è limitata ad includere questi paesi nella sua nuova Politica Europea di Vicinato, nella quale l’Unione non si assume alcun impegno in merito ad una loro futura prospettiva di adesione. Di conseguenza, le pressioni del Cremino acquistano nuova linfa, di cui questo ricatto energetico costituisce una prova evidente.

Una terza riflessione dev’essere necessariamente rivolta al complesso delle relazioni euro-russe. L’Unione Europea e la Russia hanno inquadrato le relazioni bilaterali nel contesto di un ambizioso ‘Partenariato strategico’. Per alcuni, questo rispecchia il sogno gorbacioviano di una ‘casa comune europea’ dall’Atlantico agli Urali, unita da profondi legami storici e da un comune futuro geo-politico. Per altri, il partenariato è motivato dal fatto che la Russia e l’Ue rimangono le due principali entità politiche del Continente, che condividono interessi economici e strategici cruciali per entrambi.

La realtà sul campo, purtroppo, scredita entrambi le interpretazioni. Da un lato, la strategia russa verso l’Unione Europea appare guidata una sorta di divide et impera. Mosca coltiva relazioni privilegiate con quei paesi membri, in particolare la Francia, la Germania e l’Italia (non ha caso i principali importatori di gas russo), che hanno scelto di ignorare la deriva autoritaria del Cremlino. Al contempo, Putin asseconda l’idea del partenariato strategico, che assicura a Mosca un potere negoziale nei confronti dell’Ue sproporzionato rispetto all’oggettivo peso politico ed economico della Russia.

La strategia dell’Ue verso la Russia, d’altro canto, è uno degli esempi più significativi dell’impalpabile Politica estera e di sicurezza comune. Il frazionamento fra la posizione della Commissione, quella dei paesi ‘russofobi’ (in particolare gli scandinavi ed i nuovi stati membri dell’Europa centro-orientale) e quella di Francia, Germania ed Italia si traduce inevitabilmente in una cacofonia di voci ed opinioni.

La conclusione che si deve trarre dall’episodio di Capodanno è dunque tanto ovvia quanto preoccupante: l’ambiguità dell’Ue riguardo alla Russia si traduce in un immobilismo che non giova né agli interessi vitali dell’Unione, né all’immagine di se stessa che l’Europa intende proiettare al di fuori dei propri confini.


Saturday, 3 January 2009

Huntington & Hamas

E' morto alla vigilia di natale uno dei teorici delle relazioni internazionali che ammiro di piu': non tanto (o non solo) per cio' che diceva, ma per come lo diceva. Huntington divenne universalmente noto dal 1993 in poi per la pubblicazione del saggio The Clash of Civilizations.

Li' teorizzava l'ascesa di fattori culturali e religiosi in sostituzione dell'ideologia come elementi chiave nella definizione dell'ordine internazionale. La teoria fu popolare da subito ma e' stata ripresa, piuttosto arbitrariamente, dopo l'11 settembre per spiegare l'ascesa del terrorismo internazionale (in un modo che Huntington generalmente ripudiava).

The Clash of Civilizations ha fornito sicuramente un ottimo strumento a quanti volessero spiegare la radicalizzazione dell'Islam politico nel Medio Oriente e l'ascesa di movimenti come Hamas in Palestina ed Hezbollah in Libano. E fornisce sicuramente un'ottima spiegazione a quanti cerchino di giustificare l'attacco di Israele o la "resistenza" di Hamas di queste ore.

Il conflitto arabo-israeliano e' troppo complesso per consentire di prendere una parte o l'altra in modo aprioristico. Non si puo' non constatare la "sproporzione" dell'attacco israeliano (con ovvie motivazioni di politica interna a fomentarlo), cosi' come non si possa minimizzare il fatto che Gaza sia di fatto un "failed state" prima ancora di diventare stato.

In questo senso, c'e' una parte meno nota del lavoro di Huntington che a mio parere da una spiegazione accurata anche se pessimistica degli eventi di queste ore. Nel libro The Third Wave, Huntington spiegava la "transizione" verso la democrazia dopo la fine della guerra fredda e come paesi che si allontanassero dalla dittatura fossero gradualmente diretti verso la democrazia.

Ecco, questo principio ha ispirato una delle pochissime prese di posizione della comunita' internazionale nei confronti dell'Autorita' Palestinese negli ultimi anni: favorire le elezioni in modo che queste rafforzassero la democrazia nei Territori. Le elezioni hanno prodotto la vittoria di Hamas, la radicalizzazione del confronto politico nei Territori prima ancora che con Israele e la sconfitta politica e morale del presidente palestinese Abbas.

Il mondo arabo ed i territori in particolare non sono "in transizione" verso nessun posto. Non verso la democrazia e sicuramente non verso la pace.

Tuesday, 30 December 2008

Questa mi mancava

Gheddafi che difende spudoratamente la Russia mi mancava davvero. Lo fa oggi, dopo una visita a Mosca, sul International Herald Tribune. Quasi ironica la sua conclusione: "Greed, stupidity, recklessness and miscalculation must not continue to implicate humanity in war." Mi domando quali di queste qualita' non si addicessero alla politica nucleare e al supporto al terrorismo che Gheddafi ha perseguito fino a 5 anni fa.

On topic, fra le cose che mi mancavano: anch'io alla fine ho ceduto a facebook. Mi preparo quindi ad un inizio 2009 ipnotizzato su quest'aggeggio.

Friday, 12 December 2008

Cartoons

Per quel che ne so, le vignette del NYT/International Herald Tribune sono di gran lunga le migliori sulla piazza.

Thursday, 4 December 2008

Come dici?

"Sono dell'idea che si debba creare un grande campo democratico progressista. Penso che il partito del socialismo europeo sbaglierebbe a coltivare l'autoreferenzialità, e penso che noi dobbiamo essere il soggetto attivo di un nuovo campo, capaci però di evitare ogni isolamento. Le forme attraverso le quali questo doppio movimento potrà realizzarsi le vedremo insieme" (Walter Veltroni, La Repubblica, 4 Dicembre 2008)

È la quinta volta che mi rileggo questa risposta di Veltroni ad una domanda sulla collocazione del Pd nel Parlamento europeo. Serenamente, pacatamente, non ci ho ancora capito nulla.

Tuesday, 2 December 2008

Squadra di rivali

Detto fatto: dopo Larry Summers e una serie di clintoniani, il repubblicano Gates confermato alla difesa e Hillary agli esteri, ci manca solo Al Gore all'ambiente, e Obama ha veramente creato il lincolniano 'team of rivals.'

I vantaggi e i rischi di una tale scelta sono piuttosto intuitivi: da un lato la possibilità di fare scelte bipartizan e di scegliere persone in base alle competenze, dall'altro una squadra di prime donne che non perdono occasione di pugnalarsi alla schiena e pugnalare il comandante in capo.

Non resisto però ad un parallelo forse ingeneroso, con un rimpasto del governo Berlusconi che lasci in poltrona i soli Brunetta e Tremonti e metta per dire, Rutelli all'ambiente, Parisi alla Difesa, Enrico Letta alle attività produttive e, ovviamente, D'Alema agli Esteri.

Altro che collocazione del Pd nel parlamento europeo: se Mr. B riuscisse a replicare la manovra Villari in modo minimamente più elegante, secondo me il Pd rischierebbe seriamente l'estinzione.

Saturday, 22 November 2008

Il G-19

Mega-raduno della confindustria danese l'altro giorno a Copenaghen, con ospite d'onore Joschka Fischer, il caustico ex-ministro degli esteri tedesco. Fischer comincia il suo discorso sul futuro dell'Europa descrivendo la foto della cena del G-20 riunito a Washington per la crisi finanziaria.

E' una questione di protocollo, ha notato, che l'ospite Bush si sieda al centro, e in maniera piuttosto gerarchica a fianco a lui si siedano via via presidenti, poi i primi ministri, e via dicendo. L'aspetto curioso e abbastanza rivelatore della forza europea, ha poi notato Fischer,
è che tutti i leader europei, a partire da Sarkozy, poi Brown, poi Merkel, poi Barroso, erano relegati agli angoli del tavolo. Tre secondi di pausa. Ah, si ! C'era anche il "nostro amico Berlusconi" all'angoletto, aggiunge, nella battuta che ha preceduto l'unica risata grassa collettiva degli settecento ingessatissimi industriali danesi.

Avrei tanta voglia
ogni tanto di dire che ognuno farebbe bene a guardarsi gli affari di casa propria invece di criticare. Ma quando l'onore dello sberleffo collettivo è riservato sempre e solo a noi italiani, a me quella voglia è passata da tempo.

Sunday, 2 November 2008

It really is time

Un po' per scelta, un po' per una cronica allergia all'hi-tech, ci ho messo più di un anno a caricare la prima foto su questo blog. L'occasione mi sembra di quelle che meritano.

Mi
è capitato diverse volte di parlare qui delle elezioni americane. All'inizio ero li', poi l'ho vista da qui, poi ero di nuovo lì. Mi è capitato di spendere qualche parola per John McCain, un politico che ha un track-record di indipendenza invidiabile e di cui qualsiasi democrazia non potrebbe che giovarsi. Ho scritto dei vari primari e comprimari (da Joe Biden a Hillary e Bill Clinton) che in un modo o nell'altro hanno animato quell'enorme circo che sono le elezioni americane.

Più di tutto, ovviamente, ho cercato di capire e di spiegarmi la campagna di Barack Obama. Fiumi di inchiostro sono stati spesi sulla questione, e altrettanti ne saranno spesi dopo il 4 novembre, comunque vada.

Se alla fine dovessi sintetizzare in una frase quali sono le qualità del candidato democratico che mi avrebbero portato a votarlo, direi la sua capacità di ascolto. Facile, mi si dirà, parlare di 'Hope' e 'Change' quando non si ha niente da perdere, come era il suo caso all'inizio. Facile dimostrarsi calmo e posato in situazioni di crisi come la Georgia o Wall Street quando si è in vantaggio. Facile dimostrarsi "presidenziale" quando si ha carisma ed eccellenti doti retoriche.

Premesso che non credo che niente di tutto questo sia facile, quello che ho cercato di intuire è stata l'abilità o meno di Obama di imparare in tutti quei settori nei quali il Senatore dell'Illinois non ha alcuna esperienza esecutiva: dalla politica estera all'economia.

L'impressione che ne ho tratto
è stata di un candidato consapevole dei propri limiti ("i will not be a perfect president" ripete fino alla noia nei comizi) ma equilibrato nel circondarsi di persone preparate (soprattutto il team economico) e di scaricare quelli che per un motivo o per un altro si sono rivelati inadeguati (il rev. Wright, o Samantha Power in politica estera).

In un lavoro impossibile come quello di Presidente degli Stati Uniti la capicit
à di tenere occhi e orecchie aperte a chi ti sta intorno mi sembra una qualità fondamentale e, for what it's worth come dicono da quelle parti, credo che Obama ce l'abbia. Per me è più che sufficente per farne il candidato migliore per quel lavoro impossibile.

Friday, 17 October 2008

Gomorra bulgara

Leggo con una certa preoccupazione la pacatissima e serenissima inchiesta dell'International Herald Tribune, che da alla Bulgaria la non invidiabile palma di paese piu' corrotto d'Europa. A scanso di equivoci, l'IHT mette in prima pagina anche una fotona del primo ministro Stanishev che gigioneggia con un mafioso.

Ironia della sorte, leggo l'articolo in volo verso Sofia, dove parteciperò oggi ad una tavola rotonda organizzata dal gruppo socialista del Parlamento Europeo (che, con molta fantasia, ha scelto un simbolo praticamente identico al PSI di Craxi).

Anche Stanishev si è fatto vivo alla conferenza e con un certo sollievo posso documentare che a nessuno dei partecipanti è stato torto un capello.
A parte a me, che è sparito il bagaglio.

Tuesday, 7 October 2008

L'Alma Mater

Questa notizia non sorprende ma rattrista comunque parecchio.

Wednesday, 1 October 2008

L'Euro-boria is back

In questi giorni cupi per la finanza mondiale, Peer Steinbruck, il ministro delle finanze tedesco, ha dichiarato che il modello di economia comunemente conosciuto come 'laisser-faire' è "semplicistico quanto pericoloso". Sarkozy ha informato l'ONU che l'era del "mercato onnipotente che ha sempre ragione è finita." Tralascio le dichiarazioni di Veltroni o anche dello stesso Tremonti, ma la sostanza non cambia.

L'Euro-boria is back, come se non peggio dei giorni in cui Washington era impantanata in Iraq. Il modello americano ha fallito e l'Europa, con il suo modello capitalistico e democratico dal 'volto umano', per dirla come i sessantottini, alla fine avrà la meglio.Gli eccessi di alcuni investitori americani questi giorni sono sotto gli occhi di tutti, così come l'arroganza dell'amministrazione Bush durante e dopo l'invasione in Mesopotamia. Il problema vero è che allora come oggi, l'Europa ha poco di cui gioire o rallegrarsi.

Nel 2003-2004 l'Europa aveva qualche pezza d'appoggio per giustificare la sua arroganza falsamente modesta, per esempio l'allargamento dell'Ue in Europa centrale. Solo poi (per esempio con i referendum in Francia, Olanda e piu' recentemente in Irlanda) si è capito che anche noi l'espansione ad Oriente non l'avevamo proprio preparata a dovere.

Oggi, non ci sono nemmeno quelle pezze d'appoggio. Le banche europee cominciano a traballare; alcune delle economie dell'area euro sono sull'orlo della recessione; e i costi dello stato sociale continuano ad essere altissimi ed insostenibili.

Detto questo, la realtà più difficile da digerire per alcuni europei è che quando gli americani sbagliano, che sia in Iraq o a Wall Street, a pagare in un modo o nell'altro siamo ancora tutti.

Wednesday, 24 September 2008

Surreale e sovietica

Pensavo che la cosa che mi avrebbe sorpreso di più durante il mio terzo weekend a Tallinn nell'arco degli ultimi due anni sarebbe stato il lapsus della giornalista del tg1, che nel riferire della visita di Napolitano in Grecia, ci spiega che il presidente si auspica il raggiungimento di una politica energetica comune per tutta l'Unione Sovietica.

La cosa che mi ha sorpreso di più, invece, è stata la concentrazione inaspettata e inimmaginabile di Ferrari, Porsche e automezzi di lusso vari in un paese, l'Estonia, che il benessere se lo è conquistato principalmente con la tecnologia e non come il suo vicino orientale, con la petrocrazia.

Tuesday, 9 September 2008

I Democratici e il rispetto

"I Democratici parlano a nome dei meno ricchi; propongono politiche con delle buone intenzioni per aiutarli; la disuguaglianza li inquieta, e vogliono fare qualcosa per affrontarla. Il problema è che non hanno rispetto per gli oggetti della loro sollecitudine. La loro compassione si mischia al disdegno, quando non al disprezzo."

Così comincia un articolo di Clive Crook sul
Financial Times dell'8 settembre. L'articolo riguarda i democratici americani e le ragioni per le quali John McCain potrebbe alla fine anche vincerle, queste presidenziali. Ma provate a leggerlo tutto, l'articolo. Provate ad eliminare i riferimenti al porto d'armi, a Dio e alla differenze fra bianchi e neri. Provate a sostituire i riferimenti a Sarah Palin (la candidata alla vice-presidenza di McCain) con un qualsiasi politico nostrano della destra più populista.


Secondo me troverete diverse ragioni per le quali la sinistra in Italia, Danimarca, Francia e gran parte dell'Europa di questi tempi perde regolarmente le elezioni.

Tuesday, 2 September 2008

Gli straordinari

Un mio pezzo, pubblicato su EUObserver, con qualche idea per il vertice straordinario sulla Russia. Qualcosina si potrebbe ancora fare.

A basic agenda for an extraordinary summit

FABRIZIO TASSINARI

01.09.2008 @ 19:00 CET

EUOBSERVER / COMMENT - There will be much on the agenda as EU leaders convene on 1 September for an emergency summit on the fallout from the Georgia-Russian conflict. The most urgent task concerns Georgia's immediate post-war predicament.

A reconstruction plan, support for a UN-led investigation on the events of the war, and sending in observers or peacekeepers have been among the ideas floated in recent days. They will have to be seriously considered if the EU is to follow up on the timely but somewhat limited peace-brokering efforts of the past weeks.

The larger, and more elusive, question concerns what's next for the EU and Russia. The possibility of imposing sanctions, freezing negotiations on a visa-free deal or even on the broader framework agreement, has generated some misgivings on the usual - and valid - ground that the EU and Russia are too interdependent to be able to just sever their relations to such an extent. But testifying to the significance of the crisis, these options are on the table.

There is room for taking it a step further, and turning the crisis into an opportunity to at least kick-start a long-overdue discussion on the flaws of, and possible solutions to, the EU's approach to Russia.

The most outstanding liability is the notorious lack of coordination within the EU. It concerns different EU institutions, often running their own Russia policy. It afflicts its member states, with their contrasting positions on Moscow. This is not a conundrum that Europe will be able to solve any time soon.

Yet, in order to ensure a more consistent response to Moscow, some sort of code of conduct (or "solidarity" as it's called in Central Europe) on Russia would at last be in order. This should not be a formal, and inevitably watered-down, commitment: the EU has already been there with the ill-fated Common Strategy on Russia of 1999.

It would have to be a more basic list of dos and don'ts enabling Member States to achieve better consultation and swifter coordination, in the event of new crises between Russia and individual countries in the EU or in its neighbourhood.

The recent crisis should also give enough evidence to bury once and for all the pretence of some Europeans that a policy of incentives based on the EU acquis can still provide for the script in the bilateral negotiations with Moscow.

This means that, when dealing with Russia, what the EU is left with is basically the practice of log-rolling between unrelated issues. Euro-purists might roll their eyes at this proposition, but in recent years that has proven to be the only way to get something out of Russia.

The most notable example in this respect is still the 2004 deal, under which the EU gave its go-ahead to Russia's accession to the World Trade Organisation in exchange for Moscow's ratification of the Kyoto protocol on climate change. Such a trade-off, and on this kind of issue is light-years away from today's name of the game. But one only needs to look at the numerous sectoral "dialogues" in which the EU and Russia are engaged to imagine possible combinations.

Shifting the EU's Ostpolitik

Thirdly, the conflict should prompt a shift in the EU's Ostpolitik. The paradox here is that the substance of the European Neighbourhood Policy (ENP) is for the time being as good as it gets for the former Soviet countries, and yet the feedback from Ukraine, Moldova and Georgia itself over the past years has largely been negative.

Time is ripe for the move that has been floating in EU corridors ever since the ENP was first launched: separate the Eastern European component from the Mediterranean one and call it something else - possibly with the word "integration" in it.

The EU is not exactly known for reacting to crises with powerful symbolic gestures. Any such shift could help push further some existing ENP provisions, but it is unlikely to lead to an EU membership perspective for Ukraine or Moldova in the foreseeable future.

Yet, if further evidence were needed, the war and the recognition of the independence of South Ossetia and Abkhazia have demonstrated that Russia's assertive posture in the "near abroad" has now crossed the Rubicon. Brussels' incremental and inclusive approach is the only strategic response Europe can provide, and must reinforce it.

Above all, on 1 September, the EU will have to aim for the kind of pragmatism that it has rarely been able to display in its relations with Moscow. Urgency can trigger some genuine unity on Russia. Visible, short-term measures can for once supersede long-term, and often wishful, thinking. The least common denominator among Member States can sometimes deliver tangible outputs. A pragmatic EU, after all, is what Moscow also claims to be interested in - and would most probably not expect.

Saturday, 23 August 2008

Il potere scaltro

Doveva era stanchissimo, eravamo tutti piuttosto stanchi dopo una giornata-maratona di relazioni e dibattitti. Lui aveva pure il fuso orario sul collo. Certo è che quando un paio di mesi fa ho avuto la possibilità di incontrare Joe Biden, la prima e forse principale impressione che mi ha fatto è stata quella di un uomo che conosce "the ways of Washington," come si dice da quelle parti.

Il suo discorso in quell'occasione fu abbastanza carico retoricamente, il Senatore si smarc
ò piuttosto abilmente da domande a trabocchetto su McCain e Obama, e il messaggio finale che mi lasciò alla fine potrebbe non essere rivoluzionario, ma è ampiamente condivisibile--in puro stile ways-of-Washington. Non esiste "hard power" (L'America, ndr) o "soft power" (L'Europa ndr), disse il Senatore, esiste solo lo "smart power", il "potere scaltro".

E scaltri, a mio parere,
i democratici si sono dimostrati. La guerra in Iraq sembra essere stata sorpassata nei sentimenti degli elettori americani dalla crisi economica. Gli sviluppi della situazione in Georgia, però, sono un monito abbastanza esplicito che quello che Bob Kagan chiama il "Ritorno della Storia" è una realtà che potrebbe ricominciare a pesare in campagna elettorale. Serviva un uomo di esperienza in politica estera per accompagnare Obama alla Casa Bianca, e Biden lo è.

Biden presiede la Commissione affari esteri del Senato e ha un discreto pedigree bipartizan. La sua lunga permanenza in politica minerà un po' il messaggio di cambiamento con cui Obama ha martellato gli americani nell'ultimo anno. E McCain probabilmente se ne servirà per confermare che il cambiamento proposto da Obama è tutto fumo e che il giovanotto in fondo non è preparato. Nelle settimane più recenti, i sondaggi (per quello che valgono) suggeriscono che la tattica dell'attacco frontale funziona. D'altro canto, per Obama, era quasi una scelta obbligata, e adesso i democratici dovranno lavorare per cercare di far quadrare il cerchio intorno a questo ticket ben assortito ma eterogeneo.

Tifo spudoratamente che riescano a rimanere scaltri fino alla fine.

Wednesday, 13 August 2008

Le morali di una guerra

La Russia sostiene che ha cominciato la Georgia. La Georgia dice che hanno cominciato i russi. Francamente, non importa. I conflitti cosiddetti 'congelati' (quasi un ossimoro) in Ossetia del Sud, e quello parallelo in Abkazia, hanno bollito per oltre un decennio e segnali di un'esplosione vera e propria sono stati frequenti negli ultimi mesi. Adesso la guerra è esplosa e quello che veramente conta è cercare di intravedere le conseguenze.

La prima direi
è che la Russia, per la prima volta dall'elezione di Putin nel 2000, ha dimostrato che alle parole (e qualche interruzione energetica) seguono i fatti. La Russia difficilmente sarà isolata dopo la guerra. L'occidente non se lo può permettere e il mondo non è più unipolare.

La seconda
è che Saakashvili ha tirato troppo la corda. L'avevo scritto qualche mese fa: il presidente georgiano è giovane ed ambizioso, due attributi pericolosi in un paese come la Georgia. Comunque siano andate veramente le cose, Saakashvili ha alzato i toni, provocato, e portato la Georgia sull'orlo di un'invasione russa fino a Tbilisi. Ora rischia il posto, ma anche se non lo rischiasse, ha decisamente perso l'aura di eroe romantico che si era creato e che gli americani hanno sostenuto e promosso.

La terza conseguenza riguarda proprio gli Stati Uniti. Con Bush a fine mandato, ai minimi storici di popolarit
à e con l'esercito 'overstretched' in Iraq, era inverosimile immaginare un sostegno militare americano. Che però Washington, in questa occasione, si sia praticamente limitato a facilitare il rimpatrio dei soldati georgiani di stanza in Iraq e a sostenere la missione europea guidata da Sarkozy la dice lunga sulla posizione degli Stati Uniti e sulle conseguenze per Tbilisi. La Georgia è un paese che si è inventato un americanismo quasi kitsch: la prima cosa che il passeggero incontra all'uscita dell'aeroporto di Tbilisi è un enorme poster con George W. che digrigna la mascella e saluta con la manina. I georgiani erano arrivati a sperare che potessero presto entrare nella NATO, grazie al sostegno americano. Quel sostegno non è servito in occasione dell'ultimo vertice dell'Alleanza, ed è molto, molto improbabile che arrivi ora.

Monday, 28 July 2008

Il peccato turco

Quello che è successo alla Turchia negli ultimi due anni farebbe invidia all'Italia, se non fosse che qui fanno sul serio.

L'attentato terroristico ieri
è un'altra spallata al futuro europeo di Ankara. La prossima potrebbe venire a giorni dalla Corte Costituzionale che si pronuncerà sulla richiesta di sciogliere il partito di maggioranza AKP e di proibire a decine di alti funzionari, incluso il PM Erdogan e il Presidente di fare politica. Il tutto per le loro tendenze islamiste.

Questi i fatti, e questo anche in apparenza il punto fondamentale. L'AKP sta islamizzando la Turchia e i falchi laici (soprattutto lo stato maggiore dell'esercito) devo raddrizzare nuovamente il paese in direzione 'kemalista.'

La dialettica laicismo/religione non dice tutto, per
ò. Innanzitutto non spiega completamente la recente serie di impressionanti errori tattici di Erdogan: insistere sulla nomina di Gül alla presidenza, una forzatura forse evitabile; cercare di riformare la costituzione (del 1980 e scritta dai militari, bisogna aggiungere) senza consultare l'opposizione; infine la storia del velo nelle università, la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Ci sono stati segnali piuttosto evidenti, soprattutto nell'hinterland dell'Anatolia di una graduale involuzione tradizionalista e religiosa, a partire dal consumo di alcohol. Ma dubito profondamente che la decisione strategica di Erdogan fosse quella di ritornare al califfato. E' stato pi
ù europeista di tutti i suoi predecessori laici, e ha sempre detto di vedere l'AKP come una specie di partito democristiano alla tedesca. Però di scelte discutibili e a mio parere erronee ne ha fatte. Poteva contare su una maggioranza schiacciante dal 2007 e l'ha usata in modo sconsiderato.

L'altro elemento che scardina il dualismo laicismo/religione
è proprio il ruolo dell'Ue. Mentre Erdogan si guadagnava le stellette di campione a Bruxelles, i laici sono fondamentalmente diventati il gruppo più anti-europeo della Turchia. Perchè? La risposta più ovvia è che molte delle riforme dettate dall'Ue vanno proprio in direzione di quella diversità sociale e culturale che secondo i Kemalisti rappresenta il cavallo di Troia per l'islamizzazione. L'altra, più scomoda verità è però che queste riforme, specialmente riguardo al controllo civile delle autorità militari, scardinano i pilastri del potere delle forze armate turche.

Dietro a questo scontro filosofico e culturale, in altre parole, si annidano motivi ben pi
ù terreni. Il fatto è che la situazione si sta deteriorando ogni giorno che passa. Peccato davvero.

Tuesday, 22 July 2008

Il macellaio

Nell'ultimo decennio pare dunque che si sia nascosto sotto falso nome, una barba 'Saddam-esca' e facendo un lavoro simile a quello che faceva prima di entrare in 'politica.' E proprio a Belgrado; quella Belgrado che lo aveva tanto maltrattato quando non era nessuno, poi pompato quando trucidava vittime inermi e ora protetto per un decennio.

Le modalita' e le circostanze dell'arresto di Radovan Karadzic, uno degli ultimi macellai della guerra nell'ex-Yugoslavia in liberta', sono fondamentali per misurarne le conseguenze. L'arresto e' importante, importantissimo: per la Serbia che vuole entrare in Europa, per la credibilita' della giustizia internazionale, per le famiglie delle vittime di stragi come quella di Srebrenica.

Decisivo, pero', ancora no: non per chisura delle ferite della guerra, che in Bosnia rimangono ancora aperte. E soprattutto non ancora per la transizione della Serbia. Ad un Karadzic che lavorava nascosto in una clinica di periferia sotto falso nome fa da contraltare un Mladic ancora in liberta', che probabilmente puo' godere di una protezione molto meglio organizzata (era un generale), e che ha responsabilita' materiali molto piu' pesanti.

Come dicono oltre-oceano: "the jury is still out." Io, nel frattempo, ne discuto stasera alla tv danese.

Thursday, 10 July 2008

La (ri)Fondazione

Fra toni sopra le righe (eufemismo) e leggi discutibili (eufemismo), un'iniziativa lodevole.

Tuesday, 8 July 2008

La mia

Alla fine anch'io ho dovuto dire la mia sull'Unione del Mediterraneo.

[Comment] How the Union for the Mediterranean will work

FABRIZIO TASSINARI
07.07.2008 @ 06:31 CET

EUOBSERVER / COMMENT - Ever since Nicolas Sarkozy tried to bulldoze his plans for a Mediterranean Union into the European debate, the new scheme seems to have made the headlines mostly for the amount of bashing it has received. Yet, if the initiative has a shot at working, it is for reasons that are both the same and completely the opposite of those initially dreamed up by the French.

Sarkozy had envisioned something that would do to the Mediterranean what Monnet and Schuman did to Europe in the 1950s: a bold integration initiative of which "our children will be proud." July 13th, when the plan is to be officially launched, is supposed to be "the day when all of us will have to meet history." That this inspired rhetoric has fallen on deaf ears is an understatement. European capitals, most notably Berlin, politely turned down the original idea on at least three counts: it was feared it would further weaken the common EU foreign policy; it was regarded as a surrogate for Turkey's EU membership bid; and it was seen as a potential competitor to the European Union itself.


After some wrangling among key EU member states, the baton has since passed to the European Commission, which unveiled its proposal in May. At face value, the Commission has been forced into the EU's characteristic institutional overkill. The new initiative will be embedded in the existing framework, the so-called Barcelona process. It will complement and upgrade its ongoing work. Its new official name: 'Barcelona Process: Union for the Mediterranean.'


A diverse bunch of unruly neighbours
Even diluted as it now is, this new enterprise is still an inevitable outcome of the most serious flaws of the EU's Mediterranean policy. For over a decade, the EU has chased a quixotic, comprehensive rapprochement with a diverse bunch of unruly neighbours spanning from Morocco to Jordan. The Barcelona process, after all, is modelled on the three-basket architecture of the 1975 Conference for Security and Cooperation in Europe.


Yet, the Middle East and North Africa have hardly moved closer the political standards that the EU has timidly sought to promote. Authoritarian regimes in the South appear as resilient as ever. The Middle East stagnates in its perilous stalemate. Most worryingly, the vision of a single Mediterranean space umbilically bound to the EU by historical ties and economic interdependence has been trumped by the prevalent European perception of its Southern backyard as the prime source of illegal migration, fundamentalism and terror.


This sorry record can explain why recent initiatives in the region go in the direction of a diversification and devolution of EU policies. The European Neighbourhood Policy has added a bilateral dimension to the cumbersome deals that the EU had sealed with its Southern counterparts under the Barcelona regime. Europe has called (without much success so far) for a more substantial South-South cooperation among North African and Middle Eastern countries. Faced with the longstanding paralysis of the political dialogue, the EU has placed more emphasis on the cultural and social realm of its policies.


Gradual devolution
Also, in light of the present post-Irish referendum gloom, the Union for the Mediterranean represents another step in the direction of this gradual devolution. The new initiative will focus on specific projects in areas such as energy, environment, and transports. Its secretariat will effectively be a technical office for project coordination. It will be chaired by two rotating consul-like figures, one from Europe and one from a North African country. But it is more logical to imagine these personalities speaking for their respective constituencies than on behalf of the Mediterranean as a whole.


Put another way, rather than heralding a new era of Mediterranean unity, this new scheme will at best provide substance to some sector-specific cooperation and counter Brussels' centralizing tendencies. Whether and how this move will change the way Europeans perceive threats emanating from the South remains to be seen. But the involuntary moral of this saga may well be that the sooner the EU stops looking at its Southern periphery as the chimerical 'Mediterranean', the better it will be equipped to deal with its troubles.

Monday, 30 June 2008

I 20 intellettuali "akbar"

Oggi la rivista Foreign Policy pubblica la lista dei 20 intellettuali piu' influenti al mondo. 10 su 20 sono musulmani.

Sunday, 22 June 2008

Euro-Clausewitz

Il calcio lo seguo con la sagacia e competenza degli altri 55 milioni di CT che si aggirano disoccupati in Italia. Quindi se devo dire anche io la mia, direi che la cifra della partita di stasera sarà capire chi delle due contentendi ha la difesa più moscia

Detto questo, mi ha sempre affascinato il paragone, un po’ forzato e un po’ no, fra la palla che rotola e la politica internazionale (vedi, per esempio, How Soccer Explains the World: An Unlikely Theory of Globalization di Franklin Foer). La cosa mi è tornata in mente ieri sera mentre vedevo come la Russia strapazzava l’Olanda.

Quattro anni fa la Russia era stata la prima squadra ad uscire, la Francia e l’Inghilterra sembravano dover spaccare il mondo, e alla fine vinse la piccola Grecia. Il paragone con la politica cosa mi incuriosì a tal punto che vidi la necessità di scriverne sull’ International Herald Tribune. Quest’anno sono in altre faccende affaccendato e oltretutto non posso riscrivere lo stesso articolo.

Certo è che in quattro anni la Russia di passi avanti ne ha fatti.

Thursday, 19 June 2008

Il drizzone

"Vado in Europa dopo due anni e la trovo diversa rispetto a due anni fa quando c'erano persone come Tony Blair, Aznar, Chirac e io stesso. Con il cambio di nomi l'Europa ha perso personalità, protagonismo e ha fatto dei passi indietro" (Silvio Berlusconi, 19 giugno 2008).

Per la terza e ultima puntata della mia settimana americana, a breve un video qui.