Doveva era stanchissimo, eravamo tutti piuttosto stanchi dopo una giornata-maratona di relazioni e dibattitti. Lui aveva pure il fuso orario sul collo. Certo è che quando un paio di mesi fa ho avuto la possibilità di incontrare Joe Biden, la prima e forse principale impressione che mi ha fatto è stata quella di un uomo che conosce "the ways of Washington," come si dice da quelle parti.
Il suo discorso in quell'occasione fu abbastanza carico retoricamente, il Senatore si smarcò piuttosto abilmente da domande a trabocchetto su McCain e Obama, e il messaggio finale che mi lasciò alla fine potrebbe non essere rivoluzionario, ma è ampiamente condivisibile--in puro stile ways-of-Washington. Non esiste "hard power" (L'America, ndr) o "soft power" (L'Europa ndr), disse il Senatore, esiste solo lo "smart power", il "potere scaltro".
E scaltri, a mio parere, i democratici si sono dimostrati. La guerra in Iraq sembra essere stata sorpassata nei sentimenti degli elettori americani dalla crisi economica. Gli sviluppi della situazione in Georgia, però, sono un monito abbastanza esplicito che quello che Bob Kagan chiama il "Ritorno della Storia" è una realtà che potrebbe ricominciare a pesare in campagna elettorale. Serviva un uomo di esperienza in politica estera per accompagnare Obama alla Casa Bianca, e Biden lo è.
Biden presiede la Commissione affari esteri del Senato e ha un discreto pedigree bipartizan. La sua lunga permanenza in politica minerà un po' il messaggio di cambiamento con cui Obama ha martellato gli americani nell'ultimo anno. E McCain probabilmente se ne servirà per confermare che il cambiamento proposto da Obama è tutto fumo e che il giovanotto in fondo non è preparato. Nelle settimane più recenti, i sondaggi (per quello che valgono) suggeriscono che la tattica dell'attacco frontale funziona. D'altro canto, per Obama, era quasi una scelta obbligata, e adesso i democratici dovranno lavorare per cercare di far quadrare il cerchio intorno a questo ticket ben assortito ma eterogeneo.
Tifo spudoratamente che riescano a rimanere scaltri fino alla fine.
Saturday, 23 August 2008
Wednesday, 13 August 2008
Le morali di una guerra
La Russia sostiene che ha cominciato la Georgia. La Georgia dice che hanno cominciato i russi. Francamente, non importa. I conflitti cosiddetti 'congelati' (quasi un ossimoro) in Ossetia del Sud, e quello parallelo in Abkazia, hanno bollito per oltre un decennio e segnali di un'esplosione vera e propria sono stati frequenti negli ultimi mesi. Adesso la guerra è esplosa e quello che veramente conta è cercare di intravedere le conseguenze.
La prima direi è che la Russia, per la prima volta dall'elezione di Putin nel 2000, ha dimostrato che alle parole (e qualche interruzione energetica) seguono i fatti. La Russia difficilmente sarà isolata dopo la guerra. L'occidente non se lo può permettere e il mondo non è più unipolare.
La seconda è che Saakashvili ha tirato troppo la corda. L'avevo scritto qualche mese fa: il presidente georgiano è giovane ed ambizioso, due attributi pericolosi in un paese come la Georgia. Comunque siano andate veramente le cose, Saakashvili ha alzato i toni, provocato, e portato la Georgia sull'orlo di un'invasione russa fino a Tbilisi. Ora rischia il posto, ma anche se non lo rischiasse, ha decisamente perso l'aura di eroe romantico che si era creato e che gli americani hanno sostenuto e promosso.
La terza conseguenza riguarda proprio gli Stati Uniti. Con Bush a fine mandato, ai minimi storici di popolarità e con l'esercito 'overstretched' in Iraq, era inverosimile immaginare un sostegno militare americano. Che però Washington, in questa occasione, si sia praticamente limitato a facilitare il rimpatrio dei soldati georgiani di stanza in Iraq e a sostenere la missione europea guidata da Sarkozy la dice lunga sulla posizione degli Stati Uniti e sulle conseguenze per Tbilisi. La Georgia è un paese che si è inventato un americanismo quasi kitsch: la prima cosa che il passeggero incontra all'uscita dell'aeroporto di Tbilisi è un enorme poster con George W. che digrigna la mascella e saluta con la manina. I georgiani erano arrivati a sperare che potessero presto entrare nella NATO, grazie al sostegno americano. Quel sostegno non è servito in occasione dell'ultimo vertice dell'Alleanza, ed è molto, molto improbabile che arrivi ora.
La prima direi è che la Russia, per la prima volta dall'elezione di Putin nel 2000, ha dimostrato che alle parole (e qualche interruzione energetica) seguono i fatti. La Russia difficilmente sarà isolata dopo la guerra. L'occidente non se lo può permettere e il mondo non è più unipolare.
La seconda è che Saakashvili ha tirato troppo la corda. L'avevo scritto qualche mese fa: il presidente georgiano è giovane ed ambizioso, due attributi pericolosi in un paese come la Georgia. Comunque siano andate veramente le cose, Saakashvili ha alzato i toni, provocato, e portato la Georgia sull'orlo di un'invasione russa fino a Tbilisi. Ora rischia il posto, ma anche se non lo rischiasse, ha decisamente perso l'aura di eroe romantico che si era creato e che gli americani hanno sostenuto e promosso.
La terza conseguenza riguarda proprio gli Stati Uniti. Con Bush a fine mandato, ai minimi storici di popolarità e con l'esercito 'overstretched' in Iraq, era inverosimile immaginare un sostegno militare americano. Che però Washington, in questa occasione, si sia praticamente limitato a facilitare il rimpatrio dei soldati georgiani di stanza in Iraq e a sostenere la missione europea guidata da Sarkozy la dice lunga sulla posizione degli Stati Uniti e sulle conseguenze per Tbilisi. La Georgia è un paese che si è inventato un americanismo quasi kitsch: la prima cosa che il passeggero incontra all'uscita dell'aeroporto di Tbilisi è un enorme poster con George W. che digrigna la mascella e saluta con la manina. I georgiani erano arrivati a sperare che potessero presto entrare nella NATO, grazie al sostegno americano. Quel sostegno non è servito in occasione dell'ultimo vertice dell'Alleanza, ed è molto, molto improbabile che arrivi ora.
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