Wednesday, 14 January 2009

Il tabu' Hamas

Una delle condizioni poste dalla comunita' internazionale per dialogare con Hamas e' che riconosca lo stato di Israele. Hamas, fino a prova contraria, e' un partito non uno stato. Da quando in qua i partiti devono riconoscere gli stati?

La richiesta, per inciso, non fa altro che legittimare quanto in realta' Hamas conti negli equilibri mediorientali. Autorevoli osservatori si sono da tempo sgolati a dire che non si puo' prescindere dal cercare il dialogo con Hamas. Questo non significa assecondarne i metodi o le richieste, e non significa nemmeno che il dialogo debba essere sbandierato ai quattro venti. Significa finirla con questa sceneggiata secondo la quale di (ed ad) un'organizzazione terrorista non si debba nemmeno parlare.

Wednesday, 7 January 2009

History repeating

Non mi ero accorto che da quando Ulibo, la scuola dell'allora Ulivo, ha chiuso i battenti, anche governareper, l'annessa rivista, non esiste piu'. Peccato, perche' era un ottimo serbatoio d'idee. Nella circostanza, mi sono andato a ripescare un pezzo che scrissi esattamente tre anni fa sulla crisi Russia-Ucraina del gennaio 2006. Potrei averlo scritto stamattina sulla crisi del gennaio 2009.

L’Europa e la questione russa

Di Fabrizio Tassinari (*)


Le aspirazioni di politica estera ed alcuni degli interessi vitali dell’Unione Europea (Ue) sono stati di recente scossi dalla questione, spinosa e al contempo sottovalutata, delle relazioni con la Federazione Russa.

L’evento scatenante è stata la contesa sorta fra Mosca e l’Ucraina sul prezzo del gas esportato dal gigante russo Gazprom e sul susseguente blocco, durante i primi giorni di gennaio, dell’approvvigionamento di metano, buona parte del quale attraversa l’Ucraina per raggiungere l’Europa.

Sebbene in apparenza distante e marginale, questa controversia affonda le sue radici in un contesto ben più complesso e rilevante per il futuro dell’Europa.

Innanzitutto, la querelle russo-ucraina ripropone prepotentemente il problema della dipendenza energetica europea. L’Ue attualmente importa circa il 50% del proprio fabbisogno energetico da fornitori esterni, quali la Russia, i paesi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale; importazioni che, secondo la Commissione Europea, sono destinate a raggiungere il 70% del totale entro il 2030.

Il sillogismo che emerge da queste cifre è piuttosto elementare: l’economia dell’Ue è fortemente legata all’importazione di gas e petrolio. Gli idrocarburi provengono da paesi notoriamente instabili. Ergo, le ambizioni economiche dell’Ue sono condizionate dai precari equilibri politici che caratterizzano i suoi fornitori energetici.

Negli ultimi anni, l’Ue si è cullata all’idea di aver trovato nella Russia di Vladimir Putin una controparte pragmatica e credibile nel settore energetico. Dopo gli ultimi sviluppi, che includono anche misteriose esplosioni ai gasdotti meridionali che raggiungono la Georgia, si presenta la necessità (e l’opportunità) di ripensare ad alternative per una strategia energetica sostenibile nel lungo termine: fornitori diversi (per esempio nell’Asia centrale), fonti rinnovabili o la controversa opzione nucleare.

La seconda conseguenza della cosiddetta ‘guerra del gas’ è di natura più squisitamente geo-politica. Il nuovo corso filo-occidentale inaugurato un anno fa in Ucraina dalla pacifica ‘rivoluzione arancione’, così come l’analoga ‘rivoluzione delle rose’ in Georgia, non solo un sintomo del progressivo sgretolamento del sistema di alleanze post-sovietico. Rappresentano anche e soprattutto un anelito di democrazia e libertà che si richiama esplicitamente agli ideali del 1989.

Al di là di solenni dichiarazioni d’intenti, però, l’Europa non ha risposto a queste aspirazioni di cambiamento con un segnale chiaro ed inequivocabile. Bruxelles, preoccupata dalle ripercussioni interne dello storico allargamento del 2004, si è limitata ad includere questi paesi nella sua nuova Politica Europea di Vicinato, nella quale l’Unione non si assume alcun impegno in merito ad una loro futura prospettiva di adesione. Di conseguenza, le pressioni del Cremino acquistano nuova linfa, di cui questo ricatto energetico costituisce una prova evidente.

Una terza riflessione dev’essere necessariamente rivolta al complesso delle relazioni euro-russe. L’Unione Europea e la Russia hanno inquadrato le relazioni bilaterali nel contesto di un ambizioso ‘Partenariato strategico’. Per alcuni, questo rispecchia il sogno gorbacioviano di una ‘casa comune europea’ dall’Atlantico agli Urali, unita da profondi legami storici e da un comune futuro geo-politico. Per altri, il partenariato è motivato dal fatto che la Russia e l’Ue rimangono le due principali entità politiche del Continente, che condividono interessi economici e strategici cruciali per entrambi.

La realtà sul campo, purtroppo, scredita entrambi le interpretazioni. Da un lato, la strategia russa verso l’Unione Europea appare guidata una sorta di divide et impera. Mosca coltiva relazioni privilegiate con quei paesi membri, in particolare la Francia, la Germania e l’Italia (non ha caso i principali importatori di gas russo), che hanno scelto di ignorare la deriva autoritaria del Cremlino. Al contempo, Putin asseconda l’idea del partenariato strategico, che assicura a Mosca un potere negoziale nei confronti dell’Ue sproporzionato rispetto all’oggettivo peso politico ed economico della Russia.

La strategia dell’Ue verso la Russia, d’altro canto, è uno degli esempi più significativi dell’impalpabile Politica estera e di sicurezza comune. Il frazionamento fra la posizione della Commissione, quella dei paesi ‘russofobi’ (in particolare gli scandinavi ed i nuovi stati membri dell’Europa centro-orientale) e quella di Francia, Germania ed Italia si traduce inevitabilmente in una cacofonia di voci ed opinioni.

La conclusione che si deve trarre dall’episodio di Capodanno è dunque tanto ovvia quanto preoccupante: l’ambiguità dell’Ue riguardo alla Russia si traduce in un immobilismo che non giova né agli interessi vitali dell’Unione, né all’immagine di se stessa che l’Europa intende proiettare al di fuori dei propri confini.


Saturday, 3 January 2009

Huntington & Hamas

E' morto alla vigilia di natale uno dei teorici delle relazioni internazionali che ammiro di piu': non tanto (o non solo) per cio' che diceva, ma per come lo diceva. Huntington divenne universalmente noto dal 1993 in poi per la pubblicazione del saggio The Clash of Civilizations.

Li' teorizzava l'ascesa di fattori culturali e religiosi in sostituzione dell'ideologia come elementi chiave nella definizione dell'ordine internazionale. La teoria fu popolare da subito ma e' stata ripresa, piuttosto arbitrariamente, dopo l'11 settembre per spiegare l'ascesa del terrorismo internazionale (in un modo che Huntington generalmente ripudiava).

The Clash of Civilizations ha fornito sicuramente un ottimo strumento a quanti volessero spiegare la radicalizzazione dell'Islam politico nel Medio Oriente e l'ascesa di movimenti come Hamas in Palestina ed Hezbollah in Libano. E fornisce sicuramente un'ottima spiegazione a quanti cerchino di giustificare l'attacco di Israele o la "resistenza" di Hamas di queste ore.

Il conflitto arabo-israeliano e' troppo complesso per consentire di prendere una parte o l'altra in modo aprioristico. Non si puo' non constatare la "sproporzione" dell'attacco israeliano (con ovvie motivazioni di politica interna a fomentarlo), cosi' come non si possa minimizzare il fatto che Gaza sia di fatto un "failed state" prima ancora di diventare stato.

In questo senso, c'e' una parte meno nota del lavoro di Huntington che a mio parere da una spiegazione accurata anche se pessimistica degli eventi di queste ore. Nel libro The Third Wave, Huntington spiegava la "transizione" verso la democrazia dopo la fine della guerra fredda e come paesi che si allontanassero dalla dittatura fossero gradualmente diretti verso la democrazia.

Ecco, questo principio ha ispirato una delle pochissime prese di posizione della comunita' internazionale nei confronti dell'Autorita' Palestinese negli ultimi anni: favorire le elezioni in modo che queste rafforzassero la democrazia nei Territori. Le elezioni hanno prodotto la vittoria di Hamas, la radicalizzazione del confronto politico nei Territori prima ancora che con Israele e la sconfitta politica e morale del presidente palestinese Abbas.

Il mondo arabo ed i territori in particolare non sono "in transizione" verso nessun posto. Non verso la democrazia e sicuramente non verso la pace.