Si è appena conclusa, a pochi chilometri da qui (Annapolis), la conferenza internazionale sulla pace in Medio oriente. Per l'osservatore casuale di affari esteri, il risultato è piuttosto scontato ma non trascurabile: palestinesi e israeliani hanno fondamentalmente concordato di non essere d'accordo.
Per una volta, però, sembra essere più una questione di tempi che di modi. O meglio: si sa esattamente, e almeno dal 2000, ciò su cui si deve negoziare (rifugiati, status di Gerusalemme, riconoscimento dello stato di Israele, occupazioni israeliane in Cisgiordania etc.). Non mi pare sia ancora chiaro quando farlo.
Oggi, israeliani e palestinesti si sono impegnati a chiudere il confronto entro il 2008. Ma i rappresentanti delle tre parti in causa (Olmert, Abbas e Bush) sono politicamente uno più debole dell'altro e prima di impegnarsi in grandi proclami per la pace dovranno fare i conti con il dissenso interno. Staremo a vedere.
PS: Sbirciando la lista dei partecipanti alla conferenza, non può passare inosservata la solita inutile sfilza di europei. Per la precisione, 12 paesi, + Commissione, Consiglio europeo e Solana. Per la politica estera comune, evidentemente, c'è ancora molto tempo.
Wednesday, 28 November 2007
Friday, 23 November 2007
Il cellulare di D'Alema
Giorni fa, alcuni quotidiani e agenzie l'avevano presentata come una macchietta. D'Alema che parla al cellulare durante la foto di gruppo del vertice italo-tedesco, la Merkel che lo riprende ("Sei peggio di Sarkozy"), e lui che le risponde ("È Kouchner (ministro degli esteri francese, ndr), se vuoi te lo passo").
Ora: che gli italiani abbiano un rapporto simbiotico coi cellulari è uno stereotipo abbastanza popolare all'estero. E che D'Alema non dia l'impresione di essere un campione di simpatia è putroppo per lui un altro stereotipo. Vorrei, però, dare a Massimo quel che è di Massimo.
Tiro a indovinare, ma il motivo più probabile per il quale dovesse urgentemente rispondere alla telefonata di Kouchner è la crisi libanese. Oggi scade infatti il mandato del presidente, il maronita Lahoud. I due campi contrapposti in questo ennesimo, triste scontro mediorientale--quello governativo filo-occidentale, prevalentemente sunnita da un lato e quello cristiano e sciita dall'altro--non hanno raggiunto un accordo e non si ha la più pallida idea di chi lo succederà e di che succederà.
Considerando l'influenza che i teatrini della politica italiana hanno avuto, in tempi più o meno recenti, sulla nostra politica estera (memento Turigliatto, Rossi etc.) l'attivismo italiano in Medio Oriente è a mio parere più che apprezzabile. Per quanto riguarda il Libano, l'Italia ha avuto un ruolo importante nella mini-guerra fra Hezbollah ed Israele dell'estate del 2006 e fa parte della troika informale di euro-mediterranei (insieme a Spagna e, appunto, Francia) che tenta di mediare la crisi di queste settimane. E poi il conflitto israelo-palestinese, la Turchia, l'Onu e la moratoria sulla pena di morte, l'Italia sta ritagliandosi uno spazio importante con delle posizioni, nei limiti del possibile, di buon senso.
Se questo attivismo sia sufficente a limitare i danni in Medio Oriente è un discorso sul quale, purtroppo, rimango scettico. Mi domando però, se in questa fase piuttosto deprimente della politica nazionale, gli affari esteri non possano tornare ad avere quel ruolo di collante che hanno giocato (nella forma se non nella sostanza) fino all'11 settembre 2001.
Collante non nel senso bipartisan-menefreghista del termine ("siamo tutti europeisti, internazionalisti, atlantisti"), né in quello arcano, e per l'Italia anche un po' profano, dell''interesse nazionale'. Ma in quello, più alto e pragmatico allo stesso tempo, di dare al nostro paese un valore ed un ruolo concreto e proporzionato al nostro peso economico e politico.
Ora: che gli italiani abbiano un rapporto simbiotico coi cellulari è uno stereotipo abbastanza popolare all'estero. E che D'Alema non dia l'impresione di essere un campione di simpatia è putroppo per lui un altro stereotipo. Vorrei, però, dare a Massimo quel che è di Massimo.
Tiro a indovinare, ma il motivo più probabile per il quale dovesse urgentemente rispondere alla telefonata di Kouchner è la crisi libanese. Oggi scade infatti il mandato del presidente, il maronita Lahoud. I due campi contrapposti in questo ennesimo, triste scontro mediorientale--quello governativo filo-occidentale, prevalentemente sunnita da un lato e quello cristiano e sciita dall'altro--non hanno raggiunto un accordo e non si ha la più pallida idea di chi lo succederà e di che succederà.
Considerando l'influenza che i teatrini della politica italiana hanno avuto, in tempi più o meno recenti, sulla nostra politica estera (memento Turigliatto, Rossi etc.) l'attivismo italiano in Medio Oriente è a mio parere più che apprezzabile. Per quanto riguarda il Libano, l'Italia ha avuto un ruolo importante nella mini-guerra fra Hezbollah ed Israele dell'estate del 2006 e fa parte della troika informale di euro-mediterranei (insieme a Spagna e, appunto, Francia) che tenta di mediare la crisi di queste settimane. E poi il conflitto israelo-palestinese, la Turchia, l'Onu e la moratoria sulla pena di morte, l'Italia sta ritagliandosi uno spazio importante con delle posizioni, nei limiti del possibile, di buon senso.
Se questo attivismo sia sufficente a limitare i danni in Medio Oriente è un discorso sul quale, purtroppo, rimango scettico. Mi domando però, se in questa fase piuttosto deprimente della politica nazionale, gli affari esteri non possano tornare ad avere quel ruolo di collante che hanno giocato (nella forma se non nella sostanza) fino all'11 settembre 2001.
Collante non nel senso bipartisan-menefreghista del termine ("siamo tutti europeisti, internazionalisti, atlantisti"), né in quello arcano, e per l'Italia anche un po' profano, dell''interesse nazionale'. Ma in quello, più alto e pragmatico allo stesso tempo, di dare al nostro paese un valore ed un ruolo concreto e proporzionato al nostro peso economico e politico.
Friday, 16 November 2007
Non c'hanno più visto
È di oggi la notizia che gli osservatori dell'OSCE rinunceranno a monitorare le elezioni parlamentari in Russia del 2 dicembre. Motivo apparente: le lungaggini delle autorità russe nel rilasciare i visti.
Che le prossime elezioni in Russia--queste, più quelle presidenziali di marzo--saranno una farsa si sapeva da tempo (altro che primarie del Pd). E la presenza di osservatori stranieri era già stata pesantemente decurtata da oltre 400 nelle precedenti consultazioni a circa 70 questa volta. Ma che neanche a questa sparuta armata Brancaleone sia dato il permesso di entrare a causa del visto è davvero comica se non fosse tragica.
Ne ho parlato in un intervista in Russia Profile di questo mese. L'Europa continua a parlare alla Russia col registro sbagliato: spera di 'europeizzarla' col risultato di affliggersi umiliazioni sempre più pesanti. Bisognerà imparare ad essere un po' più pragmatici, a parole se non a fatti (il gas, purtroppo, ci serve sempre). Merkel e Sarkozy sembrano averlo capito. Aspettiamo tempi migliori.
Che le prossime elezioni in Russia--queste, più quelle presidenziali di marzo--saranno una farsa si sapeva da tempo (altro che primarie del Pd). E la presenza di osservatori stranieri era già stata pesantemente decurtata da oltre 400 nelle precedenti consultazioni a circa 70 questa volta. Ma che neanche a questa sparuta armata Brancaleone sia dato il permesso di entrare a causa del visto è davvero comica se non fosse tragica.
Ne ho parlato in un intervista in Russia Profile di questo mese. L'Europa continua a parlare alla Russia col registro sbagliato: spera di 'europeizzarla' col risultato di affliggersi umiliazioni sempre più pesanti. Bisognerà imparare ad essere un po' più pragmatici, a parole se non a fatti (il gas, purtroppo, ci serve sempre). Merkel e Sarkozy sembrano averlo capito. Aspettiamo tempi migliori.
Wednesday, 14 November 2007
Baciamo le mani
Forse ispirato dagli ultimi arresti mafiosi, mi sono imposto la visione del Padrino di Coppola (3 film x 3 ore l'uno, in un weekend morto gli si fa). Tralascio lodi ai primi due film e cercherò di sorvolare sul terzo che, oltre al plot un po' forzato su P2, Vaticano e Roberto Calvi, soffre della recitazione strappalacrime (di dolore dello spettatore) di Sofia Coppola nei panni della figghia di Don Corleone.
Una delle cose che mi hanno colpito di più, questa volta, è la raffigurazione della realtà italo-americana. Multiforme e mutevole, e certamente mutata rispetto agli anni a cui il film fa riferimento. Ma non troppo diversa nei valori e costumi da quella, per esempio, raffigurata nei Sopranos, che è ambientato ai giorni nostri (a proposito, lo danno in Italia?).
Dopo qualche mese a zonzo per la East Coast mi sono effettivamente reso conto che la realtà dei film non è poi troppo stereotipata. Non mi riferisco qui ovviamente ai cittadini italiani che volente o nolente, hanno deciso di abitare qui, nè allo stereotipo della criminalità organizzata. Mi riferisco a quella comunità, numerosa, di cittadini americani che si è radicata in delle tradizioni ed abitudini italiane che in Italia non esistono quasi più.
Incidentalmente la cosa mi fa pensare agli immigrati in Europa. Fenomeno diverso, parallelo forzato, mi si dirà. Ma poi penso ai (3,7 milioni di) turchi che vivono in Germania e ai miei amici di Istanbul o Ankara. Penso ai rumeni in Italia e ai miei amici di Bucharest o Sibiu. E penso a tutti quei tedeschi ed italiani che oggi sputano sentenze inappellabili su Turchia e Romania.
Cronaca alla mano, non posso biasimarli. Ma credo ci sia una tendenza a sottostimare quanto l'immigrazione influenzi la percezione di un determinato paese.
Una delle cose che mi hanno colpito di più, questa volta, è la raffigurazione della realtà italo-americana. Multiforme e mutevole, e certamente mutata rispetto agli anni a cui il film fa riferimento. Ma non troppo diversa nei valori e costumi da quella, per esempio, raffigurata nei Sopranos, che è ambientato ai giorni nostri (a proposito, lo danno in Italia?).
Dopo qualche mese a zonzo per la East Coast mi sono effettivamente reso conto che la realtà dei film non è poi troppo stereotipata. Non mi riferisco qui ovviamente ai cittadini italiani che volente o nolente, hanno deciso di abitare qui, nè allo stereotipo della criminalità organizzata. Mi riferisco a quella comunità, numerosa, di cittadini americani che si è radicata in delle tradizioni ed abitudini italiane che in Italia non esistono quasi più.
Incidentalmente la cosa mi fa pensare agli immigrati in Europa. Fenomeno diverso, parallelo forzato, mi si dirà. Ma poi penso ai (3,7 milioni di) turchi che vivono in Germania e ai miei amici di Istanbul o Ankara. Penso ai rumeni in Italia e ai miei amici di Bucharest o Sibiu. E penso a tutti quei tedeschi ed italiani che oggi sputano sentenze inappellabili su Turchia e Romania.
Cronaca alla mano, non posso biasimarli. Ma credo ci sia una tendenza a sottostimare quanto l'immigrazione influenzi la percezione di un determinato paese.
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Tuesday, 6 November 2007
Dell'allargamento/2
La severità del rapporto pubblicato oggi dalla Commissione Europea sui futuri allargamenti dell'Ue (Turchia e Balcani) è più che giustificata. I quotidiani che hanno riportato stralci del mio corsivo piuttosto duro di ieri sembrerebbero confermarlo.
Allo stesso tempo, sarebbe ingiusto ignorare un senso di rinnovata modestia e realismo da parte delle istituzioni europee riguardo alle future espansioni dell'Ue. Ne ha ben scritto Andrea Bonanni sul blog di Repubblica: l'ottimismo degli anni passati era esagerato, così come lo sono le espulsioni, i rimpatri e i mea culpa collettivi di oggi.
L'errore che si è fatto a suo tempo nel caso della Romania non è stato politico. È stata fondamentalmente una mancanza di buon senso. A Romania e Bulgaria è stato promesso l'ingresso nell'Ue al più tardi nel 2008, no matter what. È come se ad uno scolaro di quarta elementare si offrisse la promozione immediata alle medie: la stragrande maggioranza degli scolari si adagerebbe su questa certezza. E così è successo a Romania e Bulgaria. Da quando hanno ricevuto la garanzia del loro ingresso nell'Ue, le riforme giudiziarie e dell'amministrazione pubblica si sono praticamente bloccate.
Da qui a dire che i recenti fatti di cronaca nera siano colpa dell'Ue ce ne vuole. Ma ben venga il realismo della Commissione e ben venga l'opera di informazione e demistificazione dei media su processi che appaiono terribilmente tecnici ed astratti ma che in alcuni casi sono piuttosto logici.
Allo stesso tempo, sarebbe ingiusto ignorare un senso di rinnovata modestia e realismo da parte delle istituzioni europee riguardo alle future espansioni dell'Ue. Ne ha ben scritto Andrea Bonanni sul blog di Repubblica: l'ottimismo degli anni passati era esagerato, così come lo sono le espulsioni, i rimpatri e i mea culpa collettivi di oggi.
L'errore che si è fatto a suo tempo nel caso della Romania non è stato politico. È stata fondamentalmente una mancanza di buon senso. A Romania e Bulgaria è stato promesso l'ingresso nell'Ue al più tardi nel 2008, no matter what. È come se ad uno scolaro di quarta elementare si offrisse la promozione immediata alle medie: la stragrande maggioranza degli scolari si adagerebbe su questa certezza. E così è successo a Romania e Bulgaria. Da quando hanno ricevuto la garanzia del loro ingresso nell'Ue, le riforme giudiziarie e dell'amministrazione pubblica si sono praticamente bloccate.
Da qui a dire che i recenti fatti di cronaca nera siano colpa dell'Ue ce ne vuole. Ma ben venga il realismo della Commissione e ben venga l'opera di informazione e demistificazione dei media su processi che appaiono terribilmente tecnici ed astratti ma che in alcuni casi sono piuttosto logici.
Monday, 5 November 2007
Dell'allargamento/1
Venerdì scorso ho moderato un dibattito qui a Washington sull'allargamento dell'Ue. Relatore principale, il Direttore Generale della Commissione Europea Michael Leigh.
Si sarebbe potuto parlare di Turchia e PKK, di Serbia e Kosovo, delle dimissioni del premier bosniaco, che ha lasciato perchè la comunità internazionale lo fa sentire un po' Bart Simpson.
E tutto sommato se ne è anche parlato, ma la presenza di telecamere e taccuini all'incontro ha inevitabilmente irrigidito il dibattito.
A me in particolare stava a cuore sollevare la questione turca, che di settimana in settimana sembra essere in un vicolo sempre più cieco. Per questo ho preso carta e pc e ne ho scritto in un corsivo per EU Observer stamattina.
[Comment] Laying low on Turkey
05.11.2007 - 09:22 CET By Fabrizio Tassinari
EUOBSERVER / COMMENT - If further evidence were needed, the second progress report on Turkey's bid for European Union membership, to be released on 6 November by the European Commission, will confirm that Ankara is up for a bumpy and long ride.
Brussels' harsh remarks on Turkey's record of political reforms over the last year are admittedly warranted. And given the dramatic events that have taken place in the past months - the assassination of the Turkish-Armenian journalist Hrant Dink, the Army's 'e-coup' in April and the deterioration of the security situation in the Kurdish Southeast -such criticisms are hardly surprising.
What continues to be baffling is the EU's constant emphasis on the historic, unprecedented and unique character of its enlargement towards Turkey.
That Turkey constitutes a very special case in the EU enlargement history should be apparent even to the casual observer of international affairs. And so is Turkey's crucial importance for the prospects of democracy in the Arab-Muslim world, for EU's fledgling foreign policy and even for the fortunes of the Union as a political and economic entity.
European uneasiness with multiculturalism
Paradoxically, however, these are the very same items used by Ankara's many detractors to explain why Turkey's accession would spell the end of the EU.
The country's religious background, its volatile geopolitical environment, its vast size and rising population all make a perfect match with Europe's longstanding introspection and growing uneasiness with multiculturalism. And, in recent years, they have all played extremely well in the hands of Turkey-bashers in Europe.
To dispel these concerns, it would in principle suffice to recall the stipulations that Turkey and the EU agreed upon initiating accession negotiations in 2005.These state that 'negotiations are an open-ended process, the outcome of which cannot be guaranteed beforehand' and that 'long transitional periods, derogations, specific arrangements or permanent safeguard clauses' may have to be considered.
In plain English, this means that even if Turkey becomes a EU member, it may be prevented from ever integrating in the Union in certain sensitive sectors such as movement of people. If circumstances allowed a more serene and rational discussion on the matter, this would probably put to rest the rumours about 'privileged partnership' as a substitute to full membership, to which French President Nicolas Sarkozy has given a new lease of life.
But in the overheated political environment that characterises the debate on Turkey today, it is plainly not enough.
Advised to lay low
That is why, for the time being, supporters of Ankara's EU application would be well advised to lay low.Pro-EU leaders in Turkey and pro-Turkey leaders in Europe would be much better off if they avoided trumpeting the strategic and normative importance of Turkey's accession and focused on the substance of the Commission's work.
Even better, they would do Europe a huge favour if they dropped controversial references to the past, sidelined their inspired visions for the far future, and stuck to the serious challenges they face today.
This is not a tactical expedient: it is key to keep a minimum of credibility. The EU opened accession negotiations to make Turkey a member of the EU family, not an important friend (which it has already been for more than four decades).
Obsessive reminders about Turkey's make-or-break significance for Europe only testify to the EU's insecurity about the enlargement process and about itself. And in the end of the day, the European Commission evaluates a country's progress not its feasibility.
As the report confirms, the jury is going to be out on Ankara's progress for a fairly long time.But the verdict on Turkey's feasibility as a potential member state of the EU has been already reached.
Si sarebbe potuto parlare di Turchia e PKK, di Serbia e Kosovo, delle dimissioni del premier bosniaco, che ha lasciato perchè la comunità internazionale lo fa sentire un po' Bart Simpson.
E tutto sommato se ne è anche parlato, ma la presenza di telecamere e taccuini all'incontro ha inevitabilmente irrigidito il dibattito.
A me in particolare stava a cuore sollevare la questione turca, che di settimana in settimana sembra essere in un vicolo sempre più cieco. Per questo ho preso carta e pc e ne ho scritto in un corsivo per EU Observer stamattina.
[Comment] Laying low on Turkey
05.11.2007 - 09:22 CET By Fabrizio Tassinari
EUOBSERVER / COMMENT - If further evidence were needed, the second progress report on Turkey's bid for European Union membership, to be released on 6 November by the European Commission, will confirm that Ankara is up for a bumpy and long ride.
Brussels' harsh remarks on Turkey's record of political reforms over the last year are admittedly warranted. And given the dramatic events that have taken place in the past months - the assassination of the Turkish-Armenian journalist Hrant Dink, the Army's 'e-coup' in April and the deterioration of the security situation in the Kurdish Southeast -such criticisms are hardly surprising.
What continues to be baffling is the EU's constant emphasis on the historic, unprecedented and unique character of its enlargement towards Turkey.
That Turkey constitutes a very special case in the EU enlargement history should be apparent even to the casual observer of international affairs. And so is Turkey's crucial importance for the prospects of democracy in the Arab-Muslim world, for EU's fledgling foreign policy and even for the fortunes of the Union as a political and economic entity.
European uneasiness with multiculturalism
Paradoxically, however, these are the very same items used by Ankara's many detractors to explain why Turkey's accession would spell the end of the EU.
The country's religious background, its volatile geopolitical environment, its vast size and rising population all make a perfect match with Europe's longstanding introspection and growing uneasiness with multiculturalism. And, in recent years, they have all played extremely well in the hands of Turkey-bashers in Europe.
To dispel these concerns, it would in principle suffice to recall the stipulations that Turkey and the EU agreed upon initiating accession negotiations in 2005.These state that 'negotiations are an open-ended process, the outcome of which cannot be guaranteed beforehand' and that 'long transitional periods, derogations, specific arrangements or permanent safeguard clauses' may have to be considered.
In plain English, this means that even if Turkey becomes a EU member, it may be prevented from ever integrating in the Union in certain sensitive sectors such as movement of people. If circumstances allowed a more serene and rational discussion on the matter, this would probably put to rest the rumours about 'privileged partnership' as a substitute to full membership, to which French President Nicolas Sarkozy has given a new lease of life.
But in the overheated political environment that characterises the debate on Turkey today, it is plainly not enough.
Advised to lay low
That is why, for the time being, supporters of Ankara's EU application would be well advised to lay low.Pro-EU leaders in Turkey and pro-Turkey leaders in Europe would be much better off if they avoided trumpeting the strategic and normative importance of Turkey's accession and focused on the substance of the Commission's work.
Even better, they would do Europe a huge favour if they dropped controversial references to the past, sidelined their inspired visions for the far future, and stuck to the serious challenges they face today.
This is not a tactical expedient: it is key to keep a minimum of credibility. The EU opened accession negotiations to make Turkey a member of the EU family, not an important friend (which it has already been for more than four decades).
Obsessive reminders about Turkey's make-or-break significance for Europe only testify to the EU's insecurity about the enlargement process and about itself. And in the end of the day, the European Commission evaluates a country's progress not its feasibility.
As the report confirms, the jury is going to be out on Ankara's progress for a fairly long time.But the verdict on Turkey's feasibility as a potential member state of the EU has been already reached.
Friday, 2 November 2007
Ecchissenefrega?
Mi si chiederà, e mi si è chiesto, perchè continuo a scrivere prevalentemente di politica estera su questo blog (o perchè non ne scrivo in inglese).
Potrei dire che sono cose importanti, che sarebbe la verità più ovvia. Potrei dire che sono cose che mi interessano, che è anche la verità. Ma non posso ignorare che ne scrivo anche a causa del sostanziale disinteresse nel dibattito pubblico italiano su quello che accade 'out there'.
Mi si dirà ( e mi si è detto) che il provincialismo della nostra classe politica non è una novità. Che non è una novità che della Turchia si parli solo quando Calderoli ne spara una delle sue. Che non è una sorpresa che nell'avvenimento di più alto profilo dell'autunno politico italiano, le primarie del Pd, si sia parlato di politica estera solo per estendere la nostra solidarietà ai monaci birmani e per alimentare le beghe interne sul gruppo al Parlamento europeo che dovrebbe ospitare il nuovo partito.
Poi però avvengono fatti raccapriccianti come quello di Tor di Quinto a Roma, leggo del Palazzo che si scaglia indignato contro contro la Romania, contro l'Europa, e contro la Romania in Europa e mi convinco che scrivere di queste cose una sua utilità forse ce l'ha.
Potrei dire che sono cose importanti, che sarebbe la verità più ovvia. Potrei dire che sono cose che mi interessano, che è anche la verità. Ma non posso ignorare che ne scrivo anche a causa del sostanziale disinteresse nel dibattito pubblico italiano su quello che accade 'out there'.
Mi si dirà ( e mi si è detto) che il provincialismo della nostra classe politica non è una novità. Che non è una novità che della Turchia si parli solo quando Calderoli ne spara una delle sue. Che non è una sorpresa che nell'avvenimento di più alto profilo dell'autunno politico italiano, le primarie del Pd, si sia parlato di politica estera solo per estendere la nostra solidarietà ai monaci birmani e per alimentare le beghe interne sul gruppo al Parlamento europeo che dovrebbe ospitare il nuovo partito.
Poi però avvengono fatti raccapriccianti come quello di Tor di Quinto a Roma, leggo del Palazzo che si scaglia indignato contro contro la Romania, contro l'Europa, e contro la Romania in Europa e mi convinco che scrivere di queste cose una sua utilità forse ce l'ha.
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